Nigeria, il massacro dei cristiani e le possibili vie d'uscita
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Il massacro quotidiano dei cristiani in Nigeria è reale. E non è neppure l'unica fonte di violenza nel paese più ricco dell'Africa. Trump ha ragione a denunciarla, anche se la soluzione dell'intervento armato è ingenua. Papa Leone XIV il più informato.
Anche il Papa è intervenuto a proposito della situazione dei cristiani in Nigeria sulla quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha attirato l’attenzione dicendosi intenzionato a intervenire anche militarmente, se necessario, per difenderli dai terroristi islamici. Il 18 novembre, a una domanda posta da una emittente televisiva, Leone XIV ha risposto: «Credo che in Nigeria, in alcune aree, ci sia sicuramente un pericolo per i cristiani, ma anche per tutti. Cristiani e musulmani sono stati massacrati. Si tratta di terrorismo, ma anche di una questione economica, legata al controllo delle terre. Purtroppo, molti cristiani sono morti. È importante trovare un modo affinché il governo, insieme a tutti i popoli, promuova una vera libertà religiosa».
Con queste parole il Papa ha dimostrato di essere più attento, e informato, di tanti che nelle ultime settimane hanno voluto dire la loro e ha ricondotto la questione nei giusti termini. I cristiani in Nigeria sono perseguitati in odium fidei dai musulmani jihadisti, non si tratta di un conflitto solo “di tipo sociale”, come qualcuno sostiene. Tuttavia la loro non è una situazione senza scampo: la persecuzione colpisce quelli che vivono nel nord est, a maggioranza musulmana, dove sono attivi due gruppi armati, Boko Haram e Iswap,e in alcuni stati della “Middle belt”, la fascia centrale, mentre la maggior parte dei cristiani abitano nel sud del paese.
Ma i jihadisti infieriscono anche sui musulmani, per indurli con il terrore a seguire scrupolosamente le prescrizioni della sharia, la legge islamica, e causano enormi problemi alla vita sociale ed economica dei territori in cui operano. Sono responsabili di centinaia di migliaia di sfollati bisognosi di assistenza, di innumerevoli attività produttive chiuse, di danni materiali per milioni di dollari. Eppure non costituiscono che una parte della crisi in atto in Nigeria. La violenza comune, di gruppi armati che i nigeriani chiamano genericamente “bandits”, malviventi, ha assunto proporzioni insostenibili. Ogni anno decine di migliaia di nigeriani vengono uccisi. Tanti di più sono quelli rapiti a scopo di estorsione: la maggior parte liberati dopo il pagamento di un riscatto, ma qualcuno muore per gli stenti durante la prigionia o è ucciso perché non viene pagato il riscatto, o non tutto.
Un susseguirsi di episodi di violenza in pochi giorni conferma la vastità della crisi. Nella notte tra il 14 e il 15 novembre degli uomini armati hanno attaccato alcune comunità nello stato di Nawarawa, nella Middle Belt. A Giza è stata rapita una coppia, prelevata in casa. A Barkin Abdullahi dei pastori hanno ferito a colpi di machete un’altra coppia che cercava di allontanare il bestiame lasciato pascolare dai pastori nei suoi campi. Altri pastori hanno ucciso due uomini a Sarkin Noma e ne hanno rapito uno. Nel vicino stato di Benue, a Gboko, uomini armati hanno ucciso quattro persone per rubarne le motociclette. Due giorni dopo, all’alba del 17 novembre, dei malviventi sono entrati nel complesso della chiesa di Santo Stefano a Kushe Gudgu Kagarko, nello stato nord occidentale di Kaduna. Hanno rapito il parroco, padre Bobbo Paschal, e altre persone. Si tratta di un sequestro a scopo di estorsione, come succede spesso in quello Stato. C’è stata anche una vittima, Gideon Markus, fratello di un altro sacerdote.
Nelle stesse ore nello stato di Kebbi sono state rapite 25 studentesse della scuola secondaria governativa Maga di Danko. Un insegnante e un agente di sicurezza sono stati uccisi mentre cercavano di impedire il sequestro. Quasi tutte le ragazzine sono musulmane e si ritiene che il rapimento sia a scopo di estorsione. In odium fidei, invece, è l’attacco a una chiesa nello stato centrale di Kwara, la sera del 19 novembre, a Eruku. Gli aggressori hanno fatto irruzione sparando durante una funzione religiosa. Hanno preso borse e altri beni personali lasciati dai fedeli in fuga, hanno ucciso tre persone e hanno rapito il Pastore e alcuni parrocchiani. Nelle prime ore del 21 novembre uomini armati arrivati a bordo di decine di motociclette e automobili sono entrati nel dormitorio della scuola cattolica primaria e secondaria St Mary a Papiri, nello stato occidentale del Niger, e hanno rapito decine di bambini: 52 secondo una stima, circa cento secondo un’altra. Durante l’attacco è stato ferito gravemente un agente di sicurezza. Il governo del Niger nei giorni precedenti aveva ordinato la chiusura temporanea dei collegi perché informazioni di intelligence avevano segnalato una elevata probabilità di attacchi.
Questo lungo elenco di episodi di violenza, perpetrati in meno di un settimana e che di certo non sono tutti quelli effettivamente avvenuti, ha lo scopo di far capire quanto grave sia la situazione della Nigeria, il paese più ricco del continente africano – primo produttore di petrolio, prima economia – e il più popoloso: quasi 240 milioni di abitanti, un africano su sei è nigeriano.
Per metà musulmani e per metà cristiani, circa 240 tribù e relativi idiomi, il sud ricco perché vi si trovano i giacimenti di petrolio, ma con una tuttora irrisolta istanza secessionista nell’est, il Biafra abitato dagli Igbo (e che tra il 1967 e il 1970 causò un conflitto conclusosi con almeno un milione di civili morti), i jihadisti Boko Haram e Iswap nel nord est, la Middle Belt, dove lo scontro millenario tra tribù di pastori e di agricoltori è esasperato dall’appartenenza a una diversa fede perchè i pastori sono musulmani e gli agricoltori cristiani e animisti: se la Nigeria implodesse, sotto la pressione di questi fattori divisivi e, in più, di una povertà intollerabile di cui sempre più numerosi i giovani della generazione Z accusano la corruzione eretta a sistema e stile di vita, le ripercussioni si avvertirebbero in tutto il continente e oltre ancora.
L’allarme lanciato da Washington per il destino dei cristiani è fondato e anzi si estende a tutto il paese. Se ne possono discutere la modalità, la veemenza, l’eccessiva confidenza in una soluzione militare, ma non la ragione. Invece continuano le critiche di chi nega il problema oppure pretende di conoscerne le cause e di sapere che cosa bisogna fare per rimediare. Eccone due esempi.
La professoressa Charli Carpenter, direttore del think tank americano Human Security Lab, esperta in sicurezza e diritto internazionale, ritiene utile combattere militarmente i jihadisti, ma, più utile ancora, affrontare le cause profonde: corruzione, insicurezza alimentare, scarsità di risorse, instabilità governativa, mancanza di opportunità per i giovani. Secondo Carpenter tutti questi fattori sono stati aggravati dalla decisione di Trump di sospendere gli aiuti allo sviluppo e umanitari. Piuttosto che ricorrere a ulteriore violenza, l’intervento più efficace, conclude, è ripristinare gli aiuti, alla Nigeria e ai paesi confinanti.
Anche il think tank African Sociocultural Harmony and Enlightenment Foundation (ASHE) consiglia a Trump, e alla comunità globale, di affrontare le cause profonde della persecuzione dei cristiani perché «altrimenti la violenza continuerà come parte dell'imperialismo abrahamitico in corso in tutta l'Africa». Le cause profonde, secondo Prince Justicfe Faloyem, presidente del think tank, sono la colonizzazione europea, britannica, che ha alimentato le divisioni etniche. Quindi la vera soluzione consiste nel ristrutturare la governance nigeriana ripristinando la struttura originaria del paese, il suo tradizionale assetto stravolto: «dal cambiamento nascerebbe una nuova era di giustizia e democrazia dopo secoli di oppressione».
L’obiezione alla proposta dello Human Security Lab è che in passato gli aiuti internazionali non hanno rimosso le cause profonde individuate dalla professoressa Carpenter, caso mai ne hanno attenuato i danni e quindi la percezione che i nigeriani ne avevano.
Quanto alle colpe coloniali, non sorprende che vengano accampate dalla ASHE. Si sta facendo sempre più assillante e aggressiva la campagna dei paesi africani e caraibici per ottenere riparazioni economiche per i danni causati dalla tratta transatlantica degli schiavi africani e per la colonizzazione europea di cui l’Africa e gli africani ovunque residenti continuerebbero a patire le conseguenze. Proprio nei giorni scorsi una delegazione della Commissione per le riparazioni della Comunità Caraibica (CARICOM) si è recata a Londra per incontrare rappresentanti dell’Unione Africana e del governo britannico per chiedere di «ripulire il disastro lasciato dalla schiavitù, dal colonialismo e dai loro persistenti effetti». «Dovete aiutarci a ripulire questo disastro che avete creato, affinché possiamo andare avanti tutti insieme» ha dichiarato il 18 novembre durante una conferenza stampa la presidente della Commissione, Hilary Beckles. Delle scuse non bastano, sostengono i promotori della campagna, l’unico modo per farsi perdonare è quantificare i danni in dollari, miliardi di dollari, e pagare.
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