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IN MORTE DELL'AUTORE

Morra e il "sacro" che attraversa la storia

Scomparendo il 28 maggio a 90 anni Gianfranco Morra (1930-2021) si è portato via quel poco che ancora restava di un tempo della cultura italiana che non ha avuto simili. I nomi si inseguono davanti agli occhi. Eredi qualcuno sì, continuatori forse, ma simili no. Del resto, non è nemmeno possibile.

Cultura 31_05_2021

Scomparendo il 28 maggio a 90 anni Gianfranco Morra (1930-2021) si è portato via quel poco che ancora restava di un tempo della cultura italiana che non ha avuto simili. I nomi si inseguono davanti agli occhi. Eredi qualcuno sì, continuatori forse, ma simili no. Del resto, non è nemmeno possibile.

È stato il tempo dell’angoscia della Seconda guerra mondiale, della lacerazione della Guerra civile, della nuova Italia del dopoguerra fra boom e involuzione, dei riflessi della Guerra fredda e del partito comunista più importante del mondo occidentale, dell’interminabile era democristiana e del dossettismo, del Concilio Ecumenico Vaticano II, del cattocomunismo e del progressismo, del Sessantotto, degli Anni di piombo, della patria morta con la legalizzazione del divorzio e dell’aborto, e del dopo tutto quello, sempre più inimmaginabile.

Morra ha assorbiti quei decenni sottopelle, marcando il territorio e combattendo, ma sì, ha perso. L’uomo fatto per la verità e strutturato in essa, che spunta a ogni pagina dei suoi scritti, è in via di estinzione.

Morra è stato titolare della prima cattedra di Sociologia della conoscenza istituita nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, nell’Alma Mater Studiorum ha insegnato a lungo e poi è passato nella sede distaccata di Forlì. Nel 1963 ha fondato il quadrimestrale Ethica. Rassegna di filosofia morale, che ha diretto fino al 1974, nel 1980 ha fondato a Caltagirone la «Cattedra Luigi Sturzo» ed è stato presidente del Premio internazionale di cultura cattolica di Bassano del Grappa. I titoli che ha firmato sono tantissimi. Ne menziono solo qualcuno, a mo’ di carotaggio, pagando già pegno per le omissioni: Marxismo e religione (Rusconi, Milano 1976); La cultura cattolica e il nichilismo contemporaneo (Rusconi, 1978); Dio senza Dio: fenomenologia ed esperienza religiosa (Japadre, L’Aquila 1981); Perché la sociologia (La Scuola, Brescia 1982); Breve storia del pensiero federalista (Mondadori, Milano 1993); La sociologia si chiama Clotilde. Comte e la Religione dell’Umanità (Spirali, Milano 1998); Breviario del pessimista (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2001); Europa invertebrata: un'identità certa per la civiltà di domani (Ares, Milano 2006); Antidizionario dell’Occidente: stili di vita nella tarda modernità (Ares, 2010); Il cane di Zarathustra. Tutto Nietzsche per tutti (Ares, 2012) Atlante della filosofia: il pensiero occidentale dalla A alla Z (Ares, 2017).

Mai come nel suo caso però le definizioni vanno strette, e fanno male come le scarpe troppe piccole. «Sociologo», per esempio. Lo era, Morra, certo; lo è stato. Ma, a torto o ragione (più spesso la seconda), «sociologia» puzza di positivismo e pullula di «uomini a metà», come diceva Giovanni Cantoni per “esperienza”, da lettore accorto, senza mai caderne nelle trappole, di Charles Maurras (1869-1952). Cioè di osservatori dalle constatazioni sapide in ciò che affermano e miseri in ciò che negano, o che nemmeno vedono.

Eppure non dovrebbe essere così. Il sociologo autentico, diceva un sociologo autentico come lo statunitense Robert A. Nisbet (1913-1996), è un “pastore” dell’“uomo sociale”: ne assiste le dinamiche storiche senza pretendere di determinarle o di forzarle. Ora, i sociologi veri esistono, ancorché non abbondino. Morra lo era, fotografo del reale che non ha mai né sovraesposto né sottoesposto l’obiettivo, e che dunque sapeva, e insegnava, che l’uomo, e il mondo, non è affatto a una dimensione.

La sua cultura sfaccettata e la sua produzione poliedrica appaiono sempre attraversate da una costante, talora esplicita talaltra carsica: il sacro. Treppiede, flash e grandangolo della sua macchina fotografica di sociologo non a metà ne hanno seguito le vicende, monitorando, riportando, riflettendo.

Ci vorrebbe uno scaffale di biblioteca lungo almeno quanto l’Opera omnia (in corso di pubblicazione da Jaca Book a Milano) del cardinale belga Julien Ries (1920-2013) per soltanto balbettare una definizione e per abbozzare una descrizione di «sacro». Fingiamo di darlo per acquisito. Ebbene, Morra il sacro lo ha seguito nel suo dipanarsi lungo la stagione della modernità come studioso e lungo il tempo italiano sopra evocato come protagonista. Tramonto o eclissi del sacro (per riprendere un refrain appunto della cultura di quegli anni) non è mai stato semplice dirlo nemmeno per Morra. Tranne che se fosse stato e se fosse tramonto, significherebbe caducità, limite, forse falsità. Il sacro invece, che costituisce l’uomo, pure lo trascende. Non può morire, nemmeno se lo vediamo languire agonizzante. Sarà allora eclissi, è per certo solo eclissi.

Quando tutto sembrava forse perduto fu infatti proprio Morra a parlare di ritorno e di rinascita con La riscoperta del sacro. Sudi per una antropologia integrale (Pàtron, Bologna 1964). E se attorno a lui molti, troppi danzavano e danzarono ebbri di nouvelle vague e di nouvelle théologie, sono stati proprio i profeti del “secolarismo alle porte”, quelli che in quegli anni 1960 preconizzavano la nuova, definitiva morte di Dio, i primi a mordersi la lingua, sconfessandosi al mondo dopo pochi decenni per avere fallito ogni previsione.

Chi piuttosto non aveva sbagliato diagnosi era un altro protagonista del succitato tempo italiano chiusosi con Morra, spesso, e giustamente, a lui appaiato, Augusto del Noce (1910-1989). Fu il Del Noce segugio della modernità a spiegare, in anticipo su tanti, che la secolarizzazione non è affatto il funerale del sacro, bensì l’apparire di un sacro nuovo, irto di falsi miti, diversamente sacrale e alternativamente religioso. Le ideologie moderne, anche nella ristrutturazione relativista postmoderna, e il nichilismo gaio che sembra avere assorbito ogni pensiero forte vero o caricatura (tanto che, al confronto, il vecchio pensiero debole sembra più solo camomilla) ne sono il campione, con quel loro para-sacro furore che il filosofo tedesco-americano Eric Voegelin (1901-1985) ha stigmatizzato come “religioni capovolte”.

Morra non ha mai mollato la presa, nemmeno in là con gli anni, pilotando sulle procelle con la vela della speranza, persino quella apparentemente temeraria di cercare sin dentro la modernità esecranda un lumicino ancora, tuttora fumigante.

Dire che, scomparendo, uomini come Morra lasciano un grande vuoto è un luogo comune francamente risparmiabile. Meglio ricordare che Morra ha indicato un compito. Eccezione fatta per quanti non lo hanno scordato, i suoi ultimi editori, le testate che lo hanno chiamato a collaborare e gli amici raccolti nei tre volumi Gianfranco Morra tra Filosofia e Sociologia. In occasione del XXX del suo insegnamento universitario (Japadre, 1991), Gianfranco Morra e i suoi scritti (Japadre, 2004) e Dove va la sociologia oggi? Studi in onore di Gianfranco Morra (Cantagalli, Siena 2010), Morra era stato di fatto relegato tra parentesi. Reprobo per il suo essere (sì, voglio usare la parola) reazionario rispetto ai disfattismi, impopolare per il suo mai intrupparsi e inattuale per il suo essere altro, non si lamentava. Restava se stesso, preferendo stendere l’indice a indicare una via, una scia che potesse farsi cammino. Sarebbe l’omaggio alla memoria più bello. Che tempo quello italiano che si è chiuso con Gianfranco Morra.