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LIMITI DI UNA PROPOSTA

Messa in sardo? Il mistero viene prima della quotidianità

La conferenza episcopale sarda dà il via libera alla traduzione del messale in lingua dialettale. Iniziativa comprensibile, ma limitata. Perchè la liturgia deve conservare uno spazio del mistero. E perché i termini sarebbero difficilmente traducibili. 

Ecclesia 23_04_2018

Ho letto con interesse il comunicato della Conferenza Episcopale Sarda del 17 aprile in cui si annunciava lo studio di formulari per la Messa in lingua sarda. Mi ha un pochino sorpreso un certo linguaggio quasi da rivendicazione sindacale nell’esordio: “In primo luogo i Vescovi hanno espresso convinta adesione allo spirito e alla portata storico-culturale della Giornata, per una sempre più corale e partecipata autocoscienza del popolo sardo circa la propria identità e i percorsi più idonei a rafforzarne la coesione sociale e il comune impegno nella costruzione del proprio futuro. I Vescovi, si sono detti altresì onorati e felici della presenza di S.E Monsignor Angelo Becciu, Sostituto alla Segreteria di Stato di Sua Santità, illustre figlio della nostra Terra, che contribuirà a dare lustro alla “festa dei Sardi” e a sottolinearne gli alti significati sociali e culturali, circa i quali la Chiesa non può essere estranea. I Vescovi sono anche fortemente convinti che cultura, identità e lingua sono fortemente collegati e interdipendenti fra di loro. Anche la trasmissione della fede, la preghiera e la liturgia, perciò, possono trovare nuova linfa e vigore dall’essere espressi e tramandati nella propria lingua madre. Per tale ragione la CES ha ultimamente accelerato l’iter necessario per arrivare alla stesura e alla richiesta di approvazione “ad experimentum” da parte della Santa Sede di una decina di formulari, come previsto dalle leggi canoniche. Questo materiale, al quale sta lavorando il gruppo di lavoro “Prego in Sardu”, non è ancora pronto. Appena lo sarà, e dopo un’attenta lettura dell’apposita Commissione della CES, dell’assemblea della Conferenza Episcopale Sarda, e da questa sarà inoltrato alla Santa Sede per la dovuta approvazione”. 

Ora, se il sardo è una lingua (e una sentenza della cassazione del 2014 così stabilisce) io vedo come logico che venga usata per la liturgia, tenendo presente l’ormai decennale frazionamento linguistico successivo all’abbandono del latino in nome di un Concilio che invece ne aveva ordinato la preservazione.

Certo non posso fare a meno di fare alcune osservazioni. 

Innanzitutto i presuli sardi parlano dell’uso della lingua sarda per la fede, la preghiera e la liturgia. Posso capire che si voglia cercare un modo più intimo e personale di esprimere fede e preghiera, ma la liturgia ha un aspetto più comunitario e oggettivo. Mi sembra che l’intimità, garantita dall’uso di un idioma quotidiano, che ben funziona per le prime due, funziona meno per il terzo termine.

Ma il discorso si complica in altro senso quando si considerano altre lingue che sono in presenza di idiomi dominanti. Per l’Unesco anche Napoletano e Siciliano sono lingue, non semplicemente dialetti. Quindi dovremo attendere anche la Messa in lingua Napoletana? Don Antonio Luiso ha già tradotto la Bibbia: “O bbì ca mammeta, e frate e e sore toie stanno Ila fora e vanno cercanno a te?”. Per carità, queste lingue/dialetti hanno una dignità enorme dal punto di vista letterario, ma la loro quotidianeità, come detto sopra, non sarà un ostacolo invece che un aiuto?

Si potrebbe dire che anche il latino si sostituì al greco per permettere una migliore comprensione dei fedeli. Intanto alcuni termini del greco rimasero. Poi nello sviluppo successivo delle lingue romanze, il latino è rimasto come lingua liturgica al di sopra delle contingenze.

Io penso che tutto questo voler “avvicinare” alla Messa non gli abbia fatto poi un gran servizio, ma so che nel dire questo mi rendo impopolare. Ci sono elementi della fede che è bene rendere familiari ma credo che per la liturgia si dovrebbe percepire vivamente la distanza che ci separa dal mistero che vi è celebrato e a cui siamo indegnamente convocati. Pur capendo le buone intenzioni, mi sembra che queste non siano ben dirette. Sant’Alfonso componeva canzoncine bellissime in dialetto Napoletano, ma per i pii esercizi, per le predicazioni, non per la liturgia.

E poi se si traduce in lingua/dialetto, quali termini esatti verranno usati? Perché certi termini che funzionano nella lingua ufficiale in quella dialettale (lingua/dialetto) poi vengono resi con altre parole, a volte non più comprensibili anche per molti oramai assuefatti all’Italiano. Si può dire: se non capisci più il dialetto vai alla Messa in lingua Italiana. Non lo so, c’è qualcosa che non mi quadra (pur apprezzando enormemente, lo voglio ribadire, la bellezza di questi idiomi linguistico dialettali, ma hanno una funzione che per me non è quella liturgica).

Allora, a quando la Messa anche nella lingua Romanesca, quella del Belli? Spero non mi si farà questo torto! Proprio il Belli, con un sonetto del 29 novembre 1834 chiamato “Er frutto de la predica” ci parla di un prete che cerca in tutti i modi di volgarizzare i misteri della fede:

Letto ch’ebbe er Vangelo, in piede in piede
quer bon Padre Curato tanto dotto
se piantò cco le chiappe sul paliotto
a spiegà li misteri de la fede.

Ce li vortò de sopra e ppoi de sotto:
ciariccontò la cosa come aggnede;
e de bbone raggione sce ne diede
piú assai de sei via otto quarantotto.

Riccontò ’na carretta de parabbole,
e cce ne fesce poi la spiegazzione,
come fa er Casamia doppo le gabbole.

Inzomma, da la predica de jjeri,
ggira che tt’ariggira, in concrusione 
venissimo a ccapí cche ssò mmisteri.

Insomma, lo aveva capito il popolano al tempo del Belli, ma lo capiamo ancora noi?