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LA SERIE "TUTTO CHIEDE SALVEZZA"

Mario il matto ci svela la bellezza come nostalgia del Paradiso

Nella serie Netflix Tutto chiede salvezza, finalmente una lettura non stereotipata e non basagliana della malattia mentale. E nel monologo di Mario un sublime sguardo sulla nostalgia di Dio e del Paradiso, di cui i matti sono capaci perché la loro sofferenza li spinge a cercare quella bellezza di cui tutti sentiamo la mancanza. 

Cinema e tv 26_11_2022

Il merito principale di Tutto chiede salvezza è quello di liberare i matti dalla dipendenza dall’utopia basagliana nella quale sono stati rinchiusi da anni di letteratura e cinema marxisti, per i quali il matto non è il malato, ma prodotto di una società malata. In questa bella serie prodotta da Netflix e diretta da Francesco Bruni c’è una lezione fondamentale per comprendere la malattia mentale e il suo approccio: la dimensione spirituale della persona malata.

La serie tv, interpretata da un bravissimo Federico Cesari si tiene lontana dall’approccio scientista del farmaco come totem e dello psichiatra come demiurgo, ma anche dall’ideologia meccanicista del basaglianesimo post Legge 180, per il quale il matto è il prodotto di cui ha colpa la società di classe e quindi alla società deve ritornare.

Se il film è ripulito da queste letture stereotipate e facili sulla malattia mentale come “dissidenza antiborghese” è merito della natura autobiografica di Tutto chiede Salvezza, che nasce prima come libro dello scrittore Daniele Mencarelli, il quale ha trasposto in letteratura (Tutto chiede salvezza, 2020, edizioni Mondadori) (QUI la recensione per la Bussola di Giovanni Fighera) la sua dura esperienza di un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) subito nel 1994. E lo stesso Mencarelli, oggi affermato e pluripremiato autore e scrittore è tra gli sceneggiatori dell’opera cinematografica, che ha il merito di raccontare per immagini la malattia mentale con la sofferenza che merita, ma senza i patemi né gli assilli ideologici, i buonismi irenisti e normalizzatori del soggetto psicotico o infine i sensi di colpa postmoderni.

Nella settimana che il giovane Daniele trascorre in un Centro diagnosi e cura sul litorale laziale si ritrova un’umanità sofferente e vibrante di mistero, la cui malattia viene chiamata per quello che è senza sconti: la droga è descritta come un detonatore del disagio psichico e non accessorio liberante e ricreativo, il giovane paziente affetto da una evidente disforia di genere non è una macchietta del love is love imperante, ma un figlio rifiutato con disturbi bipolari. 

È nel rapporto umano con i medici, il personale sanitario (uno straordinario Ricky Memphis) con i compagni di questa esperienza che si gioca tutta la partita. Per Daniele sarà la katàbasi in un girone da cui uscirà dopo aver compreso prima di tutto il bisogno di curarsi e di affrontare, dopo la diagnosi di depressione maggiore, la vita e le sue ingiustizie senza la rabbia che scaturisce da una sensibilità infantile di fronte al problema del male. In questo percorso troverà l’amore, ma anche uno sguardo diverso sulle cose.

In particolare, c’è un momento che rivela una potenza catartica e che merita di essere raccontato e valorizzato, soprattutto per il coraggio di parlare del tabù del peccato. Il giovedì mattina, al termine dell’ennesima notte costellata di incubi, Mario, uno dei compagni di camerata, si rivolge a Daniele. È un uomo sconfitto dalla vita, che trova rifugio nel letto d’ospedale per scappare dai fantasmi e dai rimorsi del tentato omicidio di moglie e figlia e che lotta contro un disordine interiore cercando di fare ordine nel suo spazio vitale rappresentato dal letto nel quale giace. E da quel letto può guardare un uccellino sul nido che nessuno ha ancora mai visto perché «ci sarà sempre lui a tenermi compagnia».

È proprio Mario a spiegare a Daniele, il quale cerca di comunicare nella poesia il suo bisogno di amore materno mai sopito, di come la bellezza che cercano «poeti, matti e artisti» non sia altro che nostalgia di Dio, nostalgia del Paradiso:

«Secondo me i poeti, gli artisti e i matti hanno una cosa in comune: che nessuno gli può dire cosa guardare e come guardarlo. Certi uomini hanno dentro un ricordo sgranato finito nel subcosciente, questi uomini guardano le cose per come erano veramente, com'erano prima che succedesse quello che ha cambiato tutto. Una volta questo era il Paradiso, poi abbiamo peccato, è arrivata la morte, il tempo. Questi uomini non lo sanno, ma la nostalgia che provano di fronte alla bellezza è la nostalgia del Paradiso, di Dio».

Quanta verità si cela in questo monologo interpretato da un sublime Andrea Pennacchi, che, dismessi i panni del leghista disilluso “Pojana”, ci restituisce con semplicità una verità teologica incorruttibile e primigenia.

Perché «tutta la storia umana è segnata dalla colpa originale liberamente commessa dai nostri progenitori», ma «la realtà del peccato si chiarisce soltanto alla luce della rivelazione divina» (Catechismo).

È la teologia della “caduta” narrata dalla Genesi «che si manifesta appieno soltanto alla luce della morte e della Risurrezione di Gesù Cristo». Col peccato, la bellezza di cui parla Mario, la bellezza originaria del Paradiso è distrutta, la sua armonia infranta, il suo ordine è perduto.

Ci sono uomini che hanno questa capacità di andare oltre le tende corrotte del mondo immerso nel peccato e vedono questa bellezza originaria che ci rimanda a quel Dio al quale tutti chiedono di essere salvati. È se questa è una caratteristica anche dei matti, non è perché siano depositari prometeici di verità, precluse e inconfessabili ai cosiddetti “normali”, ma perché la loro sofferenza, la loro croce, è una via privilegiata di ricerca e disvelamento di quella bellezza dalla quale tutti noi siamo attratti, anche se nel nostro appagamento non sappiamo nemmeno quanto adesso ci manchi.