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L'ARBITRATO

Ma i nostri marò dovranno aspettare altri due anni

Ambigua e contraddittoria l’India sembra aver accettato il procedimento di arbitrato internazionale presentato dall'Italia per il caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Un passo avanti anche se la soluzione della vicenda è ancora lunga e potrebbe richiedere addirittura due anni.

Politica 17_07_2015
I due marò italiani

Ambigua e contraddittoria l’India sembra aver accettato il procedimento di arbitrato internazionale presentato dall'Italia per il caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, ma forse solo per contestarne la legittimità. Come molti giuristi avevano più volte sottolineato, quella dell’arbitrato era l’unica strada da percorrere fin dall’inizio perché rappresenta l’unico modo concreto per internazionalizzare il caso (invece degli infantili appelli di Roma alla Ue e persino alla Nato) e perché Nuova Delhi non avrebbe potuto sottrarvisi dal momento che è tra i firmatari della Convezione Onu sul diritto del Mare (Unclos) che all’articolo 287 precisa che se una parte in causa chiede l’arbitrato, l’altra deve concederlo.

Nei giorni scorsi la Corte Suprema indiana ha inoltre prolungato di sei mesi il permesso a Massimiliano Latorre di rimanere in Italia per motivi di salute. Un gesto che ha scatenato le critiche del sindacato dei pescatori indiani National Fishworkers Forum il cui segretario, T. Peter, ha rilevato che «l'apatia da parte dei governi indiani ha creato incertezza per quando si tratta di far avere giustizia alla comunità dei pescatori». In realtà, proprio il ricorso all’arbitrato impedirà in ogni caso il rientro in India di Latorre e dovrebbe consentire di ottenere il trasferimento anche di Girone in un “Paese terzo” come già chiesto dall’Italia. Latorre è in Italia dal settembre 2014 per curarsi dopo essere stato colpito da un'ischemia transitoria mentre Salvatore Girone è rimasto a New Delhi. La procedura d’arbitrato ha indotto le autorità indiane a indire un’udienza il 26 agosto in cui il governo di Delhi presenterà ai giudici il rapporto ufficiale sulla vicenda.

Certo la vicenda è ancora lunga e potrebbe richiedere addirittura due anni ma almeno non è più nelle sole mani della farraginosa burocrazia giudiziaria indiana che, di rinvio in rinvio, ha cercato di nascondere la sua incapacità di istituire un processo e contestare ai militari italiani, prove alla mano, la morte di due pescatori del Kerala. Il ricorso all’arbitrato da parte dell’Italia sembra infatti aver creato imbarazzi e dissidi all’interno degli ambienti politici e giudiziari indiani, forse convinti di poter continuare all’infinto a prendere in giro gli italiani con un negoziato bilaterale rivelatosi inconcludente.«È sbagliato affermare che l'India ha acconsentito all'arbitrato. Piuttosto lo contesteremo», ha dichiarato all'agenzia Reuters il vice procuratore generale Narasimha, che rappresenta il governo indiano nel caso presso la Corte Suprema. Nell'udienza fissata il 26 agosto, secondo l'avvocato dello Stato, «verrà contestata la richiesta dell'Italia» e «si ribadirà che l'India dovrebbe avere da sola la giurisdizione per processare i reati commessi dai due marò», ha aggiunto Narasimha.

«Delhi può farlo, ma l'arbitrato va avanti lo stesso, anche senza la partecipazione dell'India», ha spiegato a Il Giornale Angela Del Vecchio, docente di diritto internazionale alla Luiss di Roma. Gli indiani hanno ratificato la Convenzione Onu che prevede l'arbitrato, ma possono contestarlo. Del resto un comunicato ufficiale del ministero degli Esteri italiano già il 18 marzo 2013 spiegava che «l'Italia continua a ritenere che il caso dei suoi due fucilieri di Marina debba essere risolto secondo il diritto internazionale. In questo senso abbiamo proposto di deferire all'arbitrato o altro meccanismo giurisdizionale la soluzione del caso». Come ricorda un documentato articolo di Fausto Biloslavo, una settimana prima era stata formalizzata all'India «l'apertura di una controversia internazionale». All’epoca i marò erano in Italia in permesso e l’effettivo ricorso all’arbitrato avrebbe consentito di non farli tornare in India. Ma il governo di Delhi minacciò rappresaglie e il governo Monti (incerto su tutto tranne sui metodi per distruggere l’economia italiana e svendere la sovranità nazionale) si fece intimidire rimandando indietro i due militari senza rivolgersi al Tribunale del Mare di Amburgo che dirime la cause di arbitrato previste da Unclos.

Del resto anche la Corte Suprema indiana indicava l’arbitrato come possibile via da percorrere quando dispose il trasferimento dei due marò dal Kerala a Nuova Delhi. «Se lo avessimo fatto subito a quest'ora il caso sarebbe definitivamente risolto senza alcun braccio di ferro», osserva la professoressa Del Vecchio. Inevitabilmente, questo inutile temporeggiamento la dice lunga sul pressapochismo e il dilettantismo con cui tre governi di Roma hanno finora gestito il caso scoppiato il 15 febbraio 2012.