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Intervista / Don Attanasio

L’umiltà, l’antidoto alla tristezza

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«Nell’odierna cultura narcisista al centro c’è un “io” che punta ad avere, a essere riconosciuto» e se fallisce si dispera. Invece l’umiltà, che si fonda sul rapporto con Gesù, «costruisce il bene» e dà gioia. Intervista a don Gianluca Attanasio, autore del libro Il segreto dell’umiltà.

Educazione 18_08_2025

Scoprire il proprio limite come via alla pace vera. Vedere l’immagine falsa di sé sgretolarsi grazie alla presenza dei confratelli o della famiglia e rincominciare a camminare liberi dall’orgoglio che nascostamente attenta alla vita di ogni uomo, togliendogli la pace e legandolo alla tristezza. Un cammino di abbassamento per vivere innalzati solo da Dio, finalmente lontani dalla disperazione. Questa la traiettoria tracciata in Il segreto dell’umiltà (Cantagalli) dal sacerdote milanese della Fraternità San Carlo Borromeo, Gianluca Attanasio, teologo, autore di diversi volumi e in missione a Torino presso la parrocchia di Santa Giulia che raduna attorno a sé una comunità viva di giovani e famiglie. Don Attanasio racconta in questa intervista alla Nuova Bussola Quotidiana quello di cui l’uomo postmoderno ha più che mai bisogno.

Leggendo il libro si capisce che la sorella dell’orgoglio è la tristezza, può spiegarci come accorgersene?
Un esempio: il Signore mi dona figli spirituali, se questi non mi considerano io mi rattristo. Se fossi umile, invece, ringrazierei Dio che me li ha donati così come sono. L’umiltà dà vita alla gratitudine e caccia l’oppressione che nasce dal fissarsi sui limiti nostri e altrui.

Questo come ha a che fare con l’attuale dilagare della disperazione?
Nell’odierna cultura narcisista al centro c’è un “io” che punta ad avere, a essere riconosciuto, mentre ciò che ci rende felici è dare. Se, ad esempio, i professori non comunicano il sapere come scoperta del vero ma come fonte di performance e anche per i genitori il valore del figlio dipende dall’esito scolastico, quando “riuscirà” sarà contento ma altrimenti si sentirà un fallito. Diverso è aiutare la persona a scoprire i talenti che Dio gli ha dato da coltivare.

Lei scrive che se fosse stato umile non si sarebbe adirato, preoccupato più del dovuto, distratto nella preghiera e che si è accorto che qualcosa non andava perché la pace che aveva in seminario era scomparsa. Cosa c’era lì ad aiutarla?
Dio mi ha chiamato a condividere la sua vita con Lui, mi ha fatto la grazia di scoprire in ciò la felicità. In seminario non facevo calcoli sulla riuscita nelle cose da fare, poi negli anni di sacerdozio, come è normale che sia, ti sono affidate delle responsabilità ed è lì che l’orgoglio cresce: come dice san Cassiano, l’orgoglio è uno scoglio nascosto sotto la schiuma delle onde con cui ti scontri persino sulla via del bene. All’inizio della vocazione sei centrato sul dono dell’amore di Dio; nel tempo le responsabilità ti portano a impegnarti ma anche a esaltarti o ad abbatterti eccessivamente. Quando emergono i tuoi limiti all’inizio ti spaventi, ma poi capisci che tutto serve perché abbiamo bisogno di liberarci dall’orgoglio che ci abita nel profondo, Gesù è venuto per questo.

In questo senso l’umiliazione di non riuscire può essere una grazia?
Sì, se trasformata in umiltà. Se ti scontri con il tuo limite, ti conosci e capisci chi sei e che hai bisogno di essere salvato, il limite può diventare strada a Dio.

Cosa significa concretamente?
La cultura individualistica intacca le scelte pratiche: vedo madri che vogliono arrivare ovunque facendo tutto da sole e che poi cadono. Dico loro: se vi metteste insieme, aiutandovi reciprocamente, i tre quarti dei problemi sarebbero già risolti. Constato poi che i bambini appena crescono diventano fastidiosi se restano spesso soli, altrimenti giocherebbero fra loro vivendo con maggior serenità. È un esempio per dire cosa può nascere da una madre che chiede aiuto e si mette insieme ad altre mamme: sarebbe anche una grande occasione di missione, perché tutte, cristiane o meno, cercano amici per i loro figli. L’umiltà costruisce il bene.

Occorre un atteggiamento pratico che spesso manca per educazione ricevuta. Cosa aiuta a scardinare l’individualismo?
Alla radice dell’umiltà c’è la preghiera, perché senza il rapporto con Cristo, come dice Lui nel Vangelo, non si può fare nulla. Poi, quando ci scontriamo con il nostro peccato, c’è la confessione. Se si ferisce qualcuno bisogna chiedergli scusa. Dentro la preghiera c’è anche il sacramento dell’Eucarestia: per ripartire ho bisogno di Gesù risorto nell’Eucarestia. Questo sacramento mi innesta in una vita comunitaria, che a livello vocazionale è la comunità religiosa o la famiglia, dove ci si ama ma dove a volte si resta anche quando non ci si capisce. È qui che, oltre ai tuoi doni, emerge il tuo male. Un Padre del deserto ha detto che quando vivi da solo puoi anche illuderti di essere bravo, perché è la presenza degli altri che fa emergere il tuo limite. Se scoprendolo anziché scappare rimani al tuo posto, puoi cominciare a convertirti davvero. Una volta, prima di un picnic con alcune famiglie, feci una bella predica. Finita la Messa aprii il frigorifero per prendere la bresaola che avevo comprato, ma un confratello l’aveva mangiata e mi irritai molto. Dopo un’omelia che poteva farmi montare in superbia caddi nell’ira per un salume. La vita comune svela quello che sei nel bene, ed è giusto guardare a questo aspetto, ma anche nel male, che ti spinge a chiedere a Cristo di salvarti e in cui ti scopri comunque amato da quei fratelli che non ti abbandonano quando sbagli.

Nel tuo libro accenni a bambini che crescono fin da piccoli nell’ansia da prestazione. Come non scoraggiarsi per i pesi che mettiamo sulle loro spalle?
Se è vero che tante difficoltà dei figli sono date dai genitori, va ricordato e capito che loro, come noi, sono dei poveri peccatori che hanno bisogno di essere salvati, che vanno quindi corretti, sostenuti, educati. Inoltre, i figli sono felici di avere dei genitori e non di averli perfetti, perché anche loro sono deboli. Non si possono nemmeno togliere loro le sofferenze, perché il figlio matura nella fatica, come quando gli si dice un “no”, o anche a causa dei nostri limiti. Bisogna chiedere a Dio di usare ogni cosa per la loro salvezza: fare tutto ciò che si può ma poi affidarGlieli.

I peggiori momenti di tristezza della tua vita sono stati quelli in cui pensavi di non valere nulla, come ti ha aiutato la vita comunitaria?
Quello che più mi ha aiutato è la certezza rivelatami dalla Sacra Scrittura che il diavolo ci tenta così: ci accusa giorno e notte davanti a Dio e ci vuole far perdere la speranza. Ci fa vedere solo i nostri aspetti negativi per farci disperare, perché sa che, quando speriamo, costruiamo il regno di Dio. Sapere da chi nasce la tristezza mi ha fatto capire che per combatterla ho bisogno di chi fa fuggire l’accusatore: la Madonna e quindi il Rosario. Poi sì, c’è la vita comune, i fratelli. Infatti, un detto dei Padri del deserto dice che nell’eremo combattiamo contro le tentazioni come contro i leoni, nel cenobio come contro le colombe. La forza della comunità ecclesiale è fortissima. L’amico vero non ti abbandona quando sei triste e questo ti fa capire che vali anche così: il coniuge che fa lo stesso diventa davvero l’amico sponsale.

Che differenza c’è fra una pace che viene dall’umiltà e una superficialità che dimentica o non guarda ciò che è problematico?
La pace che viene dalla superficialità ha nel profondo una paura e basta nulla per sgretolarla: una malattia, una persona che ti abbandona. Al contrario, la pace che nasce dalla propria pochezza consegnata a Dio, genera una speranza incrollabile, la speranza nella risurrezione. Più riconosciamo il nostro nulla, più Dio ci riempie di Sé e ci fa fare grandi cose. Come il santo Curato d’Ars: non riusciva a passare gli esami e non aveva grandi capacità oratorie, ma era completamente appoggiato a Dio che lo ha riempito di Sé portandolo a convertire tantissime persone.

Lei, riferendosi alle ferite fra fratelli, invita a domandare perdono superando l’orgoglio, ma se l’altro non vuole concederlo o chiederlo?
I Padri della Chiesa mostrano che amare i nemici è una cosa ardua, è la perfezione dell’amore. Gesù lo sa e ci indica una strada: pregare per loro. Ci vuole tempo prima di arrivare alla pace, si passa attraverso l’ira e la tristezza, però piano piano la ferita viene curata e si può arrivare perfino alla riconciliazione. In ogni caso chiedere il perdono a Dio è anche carità verso sé stessi: ti liberi dal risentimento e viene la pace, indipendentemente dall’esito. Gesù stesso ci indica il metodo: correggilo in privato, poi davanti a uno o due testimoni, infine davanti all’assemblea. Se non si ravvede consideralo come un pagano, ossia accettalo così com’è.

Come ritenere veramente l’altro migliore di sé se si ostina nel male?
I farisei per Gesù diventano occasione per insegnare agli apostoli come vivere: guardatevi dal lievito dei farisei (l’orgoglio), non pregate per farvi vedere, non mettete pesi sulle spalle altrui... Il male dell’altro diviene occasione di conversione se ci indica cosa non fare, perché tu sei potenzialmente come il peggiore dei peccatori. L’altro, poi, va giudicato solo nei suoi atti, perché non sai da cosa nasce il suo atteggiamento. Il giudizio sulla persona, invece, viene dall’orgoglio, dal ritenerci migliori degli altri.

Nel libro si parla di chiedere l’umiltà nella preghiera, ma anche questa può essere una fonte d’orgoglio.
Sono tante le vie in cui Gesù ci conduce a Lui. Se nella preghiera stai davanti a Dio non è uno sforzo essere umile, ma un fatto: sei di fronte alla sua grandezza infinita. Certo, può accadere che siccome hai pregato ti senti migliore degli altri, che è un modo farisaico di vivere la preghiera, dove al centro ci sei tu. La cosa però non si risolve smettendo di pregare, bensì umiliandosi davanti a Dio. Al centro c’è l’amore di Dio, non qualcosa da raggiungere. Perciò ho messo come sottotitolo al libro “Via che spalanca all’amore vero”. L’umiltà più che una virtù è il solo atteggiamento realista.



Il libro

La regola dell’amore, per sposi che vogliono vivere la fede

21_02_2024 Ermes Dovico

Una “regola” fatta di consigli spirituali e pratici per vivere la propria vocazione di sposi e genitori cristiani. E le storie di 13 coppie che hanno intrapreso questo cammino, guidate da un sacerdote. Ecco La regola dell’amore.