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ORA DI DOTTRINA / 76 – IL SUPPLEMENTO

L’uccisione medica diretta, i passi per l’inganno nazista

Facendo leva sul cinema, il Terzo Reich riuscì a far passare l’idea che il medico potesse uccidere, per pietà. Per ridurre le resistenze, c’era una complessa struttura medico-burocratica, che diluiva le responsabilità nella catena del dare la morte. Un promemoria per l’oggi.

Catechismo 09_07_2023
Una scena del film nazista "Ich Klage an"

Domenica scorsa, ci interrogavamo su quali dinamiche permettano ad un sistema totalitario di svilupparsi. Ma bisogna anche chiedersi come è stato possibile evitare una reazione difensiva della società. La messa in opera, da parte del Reich, del sistema di uccisione medica diretta è un ottimo esempio di come poter arrivare a distruggere il corpo sociale, non solo con l’intento di salvarlo da presunti mali peggiori, ma evitando una reazione, per così dire, “immunitaria”. Perché probabilmente tutti inorridiremmo al pensiero che dei militari possano situarsi lungo le strade e iniziare a sparare a quanti ritengono non essere degni di vivere.

Eppure, la storia e il presente mostrano ad abundantiam che è sufficiente qualche accortezza per poter arrivare allo stesso obiettivo e ottenere persino il consenso delle persone. I nazisti sfruttarono il grande mezzo di persuasione di massa dell’epoca: il cinema. Vennero realizzati numerosi film-documentari per mostrare come le tare ereditarie avrebbero potuto nuocere alla sopravvivenza della società: non vi era dubbio che la scientificità della legge della selezione naturale era in grado di predire con certezza quale sarebbe stata la sorte di un popolo, se non avesse provveduto con “metodi umani” a recuperare la salute del corpo sociale. La medicina era lì, bontà sua, per sostenere e realizzare la prevenzione.

Das Erbe (L’eredità ‒ 1935), Opfer der Vergangenheit (Vittima del passato ‒ 1937), Ich Klage an (Io accuso ‒ 1941) furono proiettati in migliaia di cinematografi della Germania, con lo scopo di acclimatare il popolo tedesco alla necessità e bontà dell’eutanasia. Era soprattutto il tema della scientificità e della compassione che venivano toccati. Di particolare interesse è il fatto che in Ich Klage an l’eutanasia esplicita veniva presentata per la prima volta al pubblico come l’atto di pietà di un medico, il prof. Thomas Heyt, verso la propria moglie, che lo prega di mettere fine alle proprie sofferenze. L’enfasi era posta sulla libera scelta della donna, ma già si intuiva che vi erano persone incapaci, verso cui lo Stato avrebbe dovuto esercitare la propria “responsabilità”.

Diversi tra i medici ex-nazisti intervistati da Robert J. Lifton potevano dire, dopo quarant’anni, che il film esercitava su di loro ancora una certa influenza e che era stato la ragione di continue e vivaci discussioni tra colleghi. Il film fu in sostanza la finestra di Overton dell’epoca, che riscontrò il successo auspicato: «La risposta di questi medici fu confermata dalla relazione conclusiva di una ricerca condotta dal Servizio di Sicurezza (Sicherheitsdienst, o SD) delle SS, il quale affermò che il film aveva “suscitato grande interesse” nell’intero Reich ed era stato “favorevolmente accolto e discusso”, e che la maggioranza della popolazione tedesca accettava in linea di principio il ragionamento, con qualche riserva concernente possibili abusi e questioni di consenso» (R. J. Lifton, I medici nazisti. Storia degli scienziati che divennero i torturatori di Hitler, BUR, Milano 2022, p. 77).

In sostanza, era passata l’idea che il medico potesse uccidere. A rendere titubanti le persone era semplicemente la possibilità che si commettessero “abusi”; mentre tra i medici la preoccupazione era relativa all’esattezza della diagnosi. Per tranquillizzare tutti, la parola d’ordine fu: “più Scienza”. Si optò infatti per la «convocazione di una commissione medica in presenza del medico di famiglia per dichiarare un paziente incurabile; ossia, affidando la decisione a medici» (ivi). La presenza dei sacerdoti della scienza medica era sufficiente per far obliare che, con o senza consenso del paziente, si stava affermando che era lecito uccidere innocenti.

Sappiamo come andò a finire, arrivando persino all’uccisione dei bambini. Ma a gettare ancora più luce sulla vicenda è la descrizione di quella che Lifton chiama la situazione medica del “come se”: «Tutti procedevano come se quei bambini fossero effettivamente destinati a ricevere i doni della scienza medica, come se dovessero essere guariti invece che uccisi». Questa falsificazione serviva a celare il tutto agli occhi delle famiglie e della società, ma anche e soprattutto «a soddisfare i bisogni psicologici degli assassini esprimendo letteralmente il rovesciamento nazista di terapia e uccisione» (p. 84). I medici riferivano ai genitori che era necessario un intervento chirurgico delicato o che dovevano essere usate terapie straordinarie, per poter così usare dosi elevate di luminal (un barbiturico) per sedare i bambini. Nella sua deposizione in tribunale, il dott. Hans Heinze (1895-1983) ancora sosteneva che non erano del tutto menzogne: «“Un bambino molto eccitabile… completamente idiota… non poteva essere mantenuto tranquillo con la dose normale di sedativi”, cosicché “si doveva… usarne una dose molto forte per… evitare che il bambino provocasse danni a se stesso attraverso la sua irrequietezza”. Al tempo stesso, “noi medici sappiamo che una tale dose eccessiva di un sedativo, nel caso dei bambini, di solito luminal… potrebbe causare la polmonite… e che questa è virtualmente incurabile”» (p. 84).

Era una giustificazione necessaria per persuadere gli altri, ma anche per mettere a tacere quella parte di sé che ben sapeva cosa stava facendo: uccidere. Un altro modo per ridurre al minimo la possibilità di rimorsi e ravvedimenti era la complessa struttura medico-burocratica, la quale faceva sì che la responsabilità fosse distribuita su così tante persone, da risultarne, per così dire, diluita: le levatrici e i medici di famiglia o degli istituti dovevano “solo” segnalare, i direttori degli istituti dovevano “solo” controllare le segnalazioni, gli esperti “solo” fornire opinioni, i funzionari del Ministero della Sanità “solo” occuparsi dei moduli, i medici dovevano “solo” prescrivere il luminal e farlo assumere al bambino (o iniettarlo). «In nessun punto della lunga sequenza (…) c’era un senso di responsabilità personale, o addirittura di coinvolgimento, nell’assassinio di un essere umano. Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello Stato» (p. 85).

In questa burocratizzazione, c’era spazio per puntare il dito sulla responsabilità altrui. I medici più prossimi all’atto omicida si difendevano dicendo che non avevano alcuna autorità di mettere in questione le decisioni politiche né il giudizio del comitato dei tre esperti. Uno di loro riferiva che «questi bambini erano già condannati a morte sui loro rapporti di trasferimento» verso le strutture che praticavano l’eutanasia. I tre esperti, a loro volta, dovevano dare il loro parere senza nemmeno vedere il bambino, ma solo sulla base di un questionario distribuito dal Ministero della Sanità, compilato dalle levatrici e da altri medici. Il parere degli esperti era quanto di più burocratico si possa immaginare: un segno + significava che si doveva procedere al “trattamento” o, al contrario, un segno -. Dal canto loro gli amministratori del programma eutanasico sui bambini ribadivano con forza che i medici non erano tenuti ad attuare per forza l’eutanasia nei casi specifici: avevano la facoltà di, ma non l’obbligo.

Il dottor F., intervistato da Lifton, poteva confermare che «non c’era né un comando diretto (“Se avessi ricevuto l’ordine di uccidere… non so, ma [penso che] avrei rifiutato… ma certamente non ci davano ordini del genere”) né un omicidio manifesto (“Voglio dire che se avessimo mandato un’infermiera da un letto all’altro a sparare a questi bambini… la cosa non avrebbe funzionato”). Di conseguenza, “non c’era uccisione, parlando in senso rigoroso… Si pensava che questo non fosse ‘uccidere’ [ma] ‘mettere a dormire’”» (pp. 88-89).

Historia magistra vitae?

 



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