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IL CASO CALIPARI

Lo 007, la reporter e il Manifesto. Bugie rosse dall'Iraq

Il mese più lungo è il titolo del libro di Gabriele Polo, direttore del Manifesto ai tempi del sequestro in Iraq della giornalista Giuliana Sgrena. Episodio drammatico che costò la vita a Nicola Callipari, agente del Sismi. Un libro che non serve alla verità, ma a rilanciare vecchie tesi care alle sinistra comunista.

Politica 30_01_2015
La prima pagina del Manifesto con la noitizia della morte di Calipari

Rapiti, liberati e qualcuno anche ucciso.  Giornalisti, cooperanti, volontari o lavoratori, prelevati nei teatri delle guerre sporche o alla luce del sole, poi rilasciati dopo mesi di trattative e milioni di dollari pagati come riscatto. I più sono tornati a casa, altri invece no. Quasi tutti, una volta tornati in patria, hanno steso sulla loro terribile avventura un dignitoso silenzio. Una regola con illustri eccezioni, quelle dei giornalisti che per qualche mese hanno indossato la tuta arancione dei detenuti in mano ai tagliagola.Un libro per ricordare e raccontare, tentazione irresistibile e certo obbligata per reporter di prima linea. 

Tra loro, solo Giuliana Sgrena del Manifesto può esibire un bis letterariosulle sue prigioni: arriva oggi in libreria Il mese più lungo (Marsilio), scritto da Gabriele Polo, all’epoca del sequestro (4 febbraio 2005) direttore del quotidiano comunista. La vicenda è nota e si incrocia con quella di Nicola Calipari, “numero due” dei servizi segreti italiani in Iraq che si occupa di togliere dalle grinfie dei terroristi gli ostaggi italiani (l’aveva fatto con i tre contractor e le due Simone). Calipari ce la anche con la Sgrena ma, mentre viaggia su un'auto verso l'aeroporto di Baghdad, a un checkpoint di marines Usa viene colpito a morte: l’agente fa da scudo con il suo corpo alla giornalista che si salva. La tragica sparatoria causa un incidente diplomatico tra Roma e Washington e le indagini sull'accaduto portano a conclusioni discordanti.

«La morte di Nicola Calipari», scrive nel suo libro Polo, «è stata risolta classificandola come qualcosa di fatale. Come si fa con le ingiustizie del mondo quando vengono accettate per paura di dar loro un nome». E su tale farlocca premessa, si dipana il racconto del direttore del Manifesto.  Fatti, personaggi e retroscena  del “quasi thriller” (la definizione è di Repubblica) sono solo il pretesto per avvalorare la tesi del complotto americano. Menzogna, del resto, lanciata da subito dal quotidiano comunista e dalla stessa Sgrena tornata in patria. Al contrario di altri ostaggi liberati, la reporter Giuliana non ha mai chiesto scusa a nessuno. Per lei i terroristi di Nassiriya, quelli che fecero a pezzi 19 soldati italiani, erano solo “partigiani e resistenti” all’occupazione americana: dunque, appena scesa dall’Hercules della nostra aeronautica militare, dichiarò che se la sentiva «di condannare i miei rapitori». Quel giorno il Manifesto, titolò che Nicola Calipari era stato assassinato dagli americani. 

L’ex direttore non cede di un millimetro dalla quella versione: la morte di Callipari fu decisa dagli americani e pure sulla volontà del governo di portare a casa la giornalista Polo lancia i suoi sospetti. Secondo lui, il Sismi si spaccò tra oltranzisti e trattativisti e lo scontro rischiò «di vanificare la delicatissima missione di Calipari». Infine, la liberazione e il tragico epilogo con «la squadra di Calipari che viene dissolta già pochi mesi dopo la sua morte». Il finale è davvero da fanta-thriller: «i “calipariani” vengono separati, assegnati a nuovi incarichi, e sparsi per il mondo; una diaspora che significa lo smantellamento quasi integrale della rete d’informatori e di conoscenze che il Sismi ha in Medio Oriente. In seguito il servizio verrà travolto, insieme ai suoi vertici, dagli scandali Nigergate, Abu Omar e Telecom Pirelli».  Insomma, in quel covo di spie e guerrafondai, di bravo ce n’era uno solo e l’hanno pure ammazzato.

Credibile questa storiaccia? Neanche un po’, è solo una brutta favola per i lettori del Manifesto che per essere i soli comunisti rimasti al mondo, sono addestrati a bersi di tutto.  Meglio allora cercare la verità da un’altra parte. «Compito di Callipari e della sua squadra, ma prima di lui per la cellula del Sismi a Bagdad, era quello di liberare gli ostaggi, trovare il canale giusto in mezzo alla pletora di questuanti e imbroglioni». Lo ha scritto qualche giorno fa Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera, in occasione della liberazione di Vanessa e Greta, le due ragazze sequestrate in Siria.  «Calipari partiva solo, jeans e giacca di pelle nera, per zone off limits controllate dalla guerriglia qaedista. Aveva una pistola e due o tre caricatori sotto la camicia. Ma sapeva che sarebbero serviti a poco. In camera teneva una valigia con i milioni di dollari in contanti».Dollari che aveva speso per liberare le due Simone (Pari e Torretta) soldi che versò ai terroristi che avevano in mano la Sgrena. E ancora: Calipari si consultava al telefono con il suo superiore, il capo del Sismi Nicolò Pollari, e a volte con dirigenti del governo Berlusconi. 

Nessun complotto, dunque, solo un ricco e materiale riscatto pagato per liberare una signora che tuttavia continua a chiamare “resistenti” i suoi carcerieri. Per questo l’improbabile versione di Polo è da buttare, esemplare saggio di quanto certa sinistra sia ostinatamente ribelle solo alla verità dei fatti e al dovere di raccontare le cose come stanno. Eppure, l’incontro tra l’agente Callipari e il direttore del Manifesto avrebbe potuto cambiare prospettiva alla storia, aprire uno squarcio nel muro dell’ideologia e della separatezza politica tra i due mondi così diversi: quello dello Stato garante della vita dei suoi cittadini e di un ridotto ideologico ostile per partito preso.  Battute dall’evidenza di un’umanità generosa e dalla gratuità di un sacrificio senza ritorni. Ma prima la Sgrena e poi il suo ex direttore hanno scelto di chiudere quello squarcio e tornare a dividersi.