L’Isis celebra la strage di Sidney e alimenta la propaganda
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Un editoriale su Al-Naba, la rivista dell’Isis in lingua araba, celebra la strage di Bondi Beach in cui sono stati uccisi 15 ebrei. E l’articolo chiama a nuovi attacchi contro gli stessi ebrei e i cristiani. Una minaccia, quella islamista, che l’Occidente non può più fingere di saper governare.
La strage di Bondi Beach è stata in due tempi: i colpi impazziti sulla sabbia e l’inchiostro terrorista clandestino. Sono passati nove giorni da quel pomeriggio del 14 dicembre in cui due terroristi hanno ucciso quindici ebrei e ferito un’altra quarantina di persone, colpevoli soltanto di essere ebrei. E già il 18 dicembre, infatti, sulle pagine di Al-Naba (numero 526), la rivista dell’Isis in lingua araba, distribuita tramite app di messaggistica crittografata, al di fuori della portata dei motori di ricerca convenzionali, lo Stato Islamico trasformava l’eccidio in narrazione, il sangue in slogan, la paura in promessa. «L’orgoglio di Sydney», recita il titolo: un editoriale lungo come una rivendicazione senza firma, che innalza gli assassini a “eroi”, li battezza “leoni” per avvertire: il peggio deve ancora arrivare. Intanto, sui canali che orbitano attorno alla galassia jihadista, i video della sparatoria scorrono accompagnati da inni e versetti di giubilo.
Su Al-Naba i terroristi islamici hanno rivendicato il metodo celebrandolo come dottrina: far “sanguinare gli ebrei nelle strade dell’Australia”, perché gli “zelanti” avevano ascoltato le raccomandazioni dell’Isis, colpito le festività, applicato la “metodologia profetica”, e trasformato Hanukkah in un “funerale”. Non una conquista di territorio, ma di immaginari: esattamente quello che vi raccontiamo da queste pagine da tempo. È l’eco di un’organizzazione indebolita sul campo che continua a esercitare potere attraverso la parola armata diffusa online. E l’editoriale ne conferma la capacità di produrre propaganda efficace nel provocare violenza contro l’Occidente. Tant’è che l’articolo dedicato agli adepti islamici allarga il raggio per indicare nuovi palcoscenici: c’è un messaggio diretto all’enorme comunità di rifugiati musulmani in Belgio, chiamati a dimostrare la loro forza e agire contro ebrei e cristiani durante il Natale. Adesso tocca a loro dare una lezione agli europei. E qualcuno, c’è da temere, risponderà. Esattamente come è stato fatto finora.
Ma quel che colpisce di più dell’editoriale è la sottolineatura di un aspetto: non è importante se l’operazione sia firmata o meno, non è necessaria più nessuna rivendicazione, il successo sta nel confondere il nemico per moltiplicare l’eco. Che è quello che è accaduto esattamente in Australia. Ed è la conferma di un errore che hanno fatto a lungo i servizi segreti europei e i governi: definendo “lupi solitari” i terroristi, ogni attentato è stato classificato automaticamente come marginale. Ma la forza dell’impostazione jihadista dello Stato islamico è stata proprio quella di partorire “soldati” in ogni angolo della terra senza formarli o addestrarli. Uomini e donne capaci anche di azioni suicide, galvanizzati a distanza, e forti nel dimostrare la vulnerabilità dei leader politici occidentali, disposti, nel frattempo, a provvedere ad un mero “recupero sociale”. Il jihad si è evoluto ed è impermeabile anche alla tecnologia che pretende di fermarlo.
Lo stesso editoriale celebra anche l’imboscata del 13 dicembre a Palmira, in Siria, dove tre americani sono stati uccisi. Per una conclusione che non lascia spiragli: il jihad come processo continuo, destinato a persistere oltre le fasi di apparente debolezza.
E dopo Sydney, in Europa si è pensato di alzare la guardia. Nel Regno Unito, la linea è stata tracciata: chi inneggia all’“intifada” ora rischia l’arresto. L’annuncio è arrivato dalle forze dell’ordine, che hanno chiarito come slogan e cartelli che invocano una “intifada globale” saranno trattati come reati. Già in cinque sono stati arrestati durante una manifestazione filo-palestinese, all’indomani del massacro australiano. Per una polizia a lungo accusata di lassismo verso le piazze filo-palestinesi, è un cambio di rotta che pesa. Negli ultimi anni, a Londra e nelle città universitarie, da Oxford a Cambridge, si sono susseguite manifestazioni anti-israeliane in cui risuonavano slogan come “Palestina libera dal fiume al mare”, formula che implica la cancellazione di Israele, fino alla glorificazione del pogrom del 7 ottobre 2023 e di Hamas. A ingrossare quelle piazze, una numerosa comunità islamica britannica, ma anche segmenti di una borghesia di sinistra attratta dalle cause terzomondiste.
La chiamata a “globalizzare l’intifada” viene letta come incitamento a una violenza senza confini contro gli ebrei. Per questo i vertici di Scotland Yard e della polizia di Manchester hanno diffuso un raro comunicato congiunto: le comunità, si legge, sono preoccupate; il contesto è cambiato; agiranno con decisione, con arresti se necessario. Anche Canberra ha risposto. Il governo australiano ha annunciato una stretta contro i discorsi d’odio e l’antisemitismo: pene più severe, visti rifiutati o revocati a chi diffonde incitamento all’odio contro gli ebrei.
Un parallelismo di decisioni che racconta un clima mutato. Perché quella di Sydney non è stata una strage figlia di uno squilibrato, al pari di quelle sparatorie nelle scuole tipiche della cronaca statunitense. Sydney, con i suoi quindici ebrei uccisi, inclusi il rabbino e una bimba, uccisi in un giorno sacro per l’ebraismo e in un caldo pomeriggio su una delle spiagge più frequentate del Paese, racconta della normalizzazione della caccia all’ebreo. La normalizzazione di un lessico che, negli ultimi due anni, ha caratterizzato le piazze, le manifestazioni, i volantini, i sermoni degli imam e le occupazioni liceali: se il sionismo viene proclamato male assoluto da estirpare, e se ogni ebreo ne diventa il simulacro, combattere il “sionista”, con qualunque mezzo, trova naturalmente una patente di legittimità. In questa chiave di lettura, l’espressione “globalizzare l’Intifada” perde ogni ambiguità retorica. Non si tratta di un semplice grido di piazza, è un lessico che non allude, ma convoca. È una pedagogia dell’odio che l’islamismo ha già insegnato e che risuona, senza dissonanze, negli appelli più recenti del jihadismo globale. Come ha spiegato proprio l’ultimo numero della rivista dell’Isis.
Il quadro che ne emerge è quello di un’intesa oscura, capillare ma non casuale, una convergenza di interessi e pulsioni il cui obiettivo finale è logorare l’Occidente dall’interno, incrinandone la coesione e mettendone alla prova le fondamenta democratiche. L’allerta è ormai planetaria. Il sistema di contenimento ha ceduto. La crisi è strutturale. E l’Occidente, oggi, si confronta con una realtà che non può più fingere di saper governare.


