Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
NEL PAESE DEI CEDRI

Libano, nuova sommossa contro un'antica corruzione

Dopo due settimane di proteste, il premier Hariri ha dato le dimissioni. Ma non è solo lui il problema. La gente è scesa in piazza per condannare la corruzione, una crisi economica e morale che ha radici molto vecchie, almeno dai tempi della Guerra Civile (1975-1990) quando si creò l'attuale sistema clientelare.

Esteri 31_10_2019
Scontro fra fazioni a Beirut, la polizia interviene per dividerli

Tredici giorni di proteste, ma le radici non sono né settarie né estremiste: il popolo libanese è sceso in piazza per manifestare contro la profonda crisi economica che sta devastando il Paese – il debito pubblico ha raggiunto il 155 percento del PIL.

La classe dirigente è accusata di malgoverno e corruzione.  Proteste incessanti, che non si sono placate neanche di fronte alla proposta del governo (21 ottobre) di introdurre un nuovo pacchetto di riforme, che include tagli netti alla spesa pubblica, in particolare degli stipendi di rappresentanti governativi e diplomatici e dei fondi speciali creati nel dopo-guerra, divenuti negli anni strumenti di rafforzamento del sistema clientelare libanese. Quello che chiede il popolo non è un cambiamento di facciata, ma una vera e propria riforma del sistema statale, considerata il solo mezzo per salvare il Libano dal collasso economico.

Dopo quasi due settimane di proteste, dunque, trovandosi in un “vicolo cieco” e in risposta alla piega violenta assunta dalle proteste, il primo ministro libanese, Saad Hariri, ha rassegnato le dimissioni. Nelle sue intenzioni, un tentativo di dare una “scossa positiva” al Paese. “Per 13 giorni, il popolo libanese ha atteso una soluzione politica che mettesse fine al deterioramento dell'economia. In questo periodo ho cercato di farlo” - ha dichiarato Hariri nel breve intervento trasmesso in diretta nazionale - “Oggi, però, la nostra responsabilità è proteggere il Libano e rilanciare la sua economia”. La decisione è stata presa in un momento chiave delle rivolte, quando le proteste hanno iniziato ad assumere un carattere violento. Il giorno stesso in cui Hariri ha dato le  dimissioni (29 ottobre) alcuni gruppi, probabilmente fedeli ai movimenti sciiti Hezbollah e Amal – partito politico libanese legato alla comunità sciita -, hanno attaccato e distrutto un presidio della protesta a Beirut, dando fuoco alle tende e picchiando i manifestanti.

Numerosi manifestanti hanno pianto di gioia alla notizia delle dimissioni di Hariri: una prima vittoria in una battaglia che, ormai è chiaro a tutti, dovrà essere combattuta sul lungo termine. L'obiettivo delle proteste è infatti più ambizioso e di più ampio respiro; da quasi due settimane, il popolo libanese ha superato le divisioni settarie, religiose e sociali per unirsi in un unico movimento di protesta contro le élite al potere, il cui assetto è rimasto lo stesso da quasi trent'anni, ovvero dalla fine della guerra civile. Quello che chiedono i manifestanti è un cambiamento radicale, che superi il vecchio sistema, attraverso la formazione di un governo di tecnici in grado di guidare il Paese fuori dalla crisi economica e finanziaria che sta vivendo.

“Un'idea eccellente”, ha commentato Sami Nader, direttore del Levant Institute for Strategic Affairs. Al momento, la formazione di un governo di tecnici appare tuttavia poco probabile, mentre si fa strada l'ipotesi di un rimpasto di governo con alcune personalità indipendenti; una misura che cerca di soddisfare le richieste del popolo, ma destinata a non alterare il vecchio modus operandi. Tradizionalmente, Hariri è stato sostenuto dall'Occidente e dai Paesi sunniti del Golfo. Per questo, i suoi sostenitori ne hanno criticato le dimissioni, nel timore che possano alimentare le tensioni politiche nel Paese e ostacolare la formazione di un nuovo governo. Anche il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha espresso forte contrarietà, nell'identico timore che un vuoto di potere possa favorire lo scoppio di una nuova guerra civile.

La crisi attuale in Libano non nasce all'improvviso, ma ha radici storiche che risalgono alle scelte economiche e politiche adottate alla fine della guerra civile libanese (1975-90). La ricchezza concentrata nelle mani di pochi, un sistema fiscale che ha aumentato la disparità sociale, il problema della povertà crescente hanno portato a una situazione insostenibile, alla quale l'attuale classe politica non è più in grado di rispondere. Anche la diffusa corruzione della classe dirigente e la crisi monetaria che ha colpito il Paese hanno contribuito in maniera decisiva alla crisi attuale.

Il quadro economico del Libano è fosco. Il Paese dipende in larga parte dalle importazioni; una svalutazione della moneta, qualora adottata, andrebbe ad aumentare i prezzi dei beni importati, erodendo lo standard di vita. Nell'anno corrente, il deficit di bilancio è stimato al 10% del Pil. I tassi di interesse sono alti, e le banche hanno ridotto drasticamente il credito nei confronti delle aziende, causando una contrazione degli investimenti del settore privato. Le tasse indirette pagate dalla popolazione crescono costantemente. Una grave crisi ambientale ha peggiorato la situazione complessiva, con enormi incendi che si sono propagati dalle aree a sud di Beirut in tutte le direzioni.

A questi problemi, tradizionalmente, il governo ha risposto strumentalizzando le divisioni presenti nel Paese, nel tentativo di impedire una mobilitazione politica generale capace di minare lo status quo. Ora che le proteste di piazza sono tutt'altro che settarie, lo schema usuale utilizzato dal governo rischia di implodere su se stesso.