L'eroismo di santa Maria Crocifissa in tempo di colera
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1836, Brescia. In piena epidemia la nobile ventiduenne Paola Di Rosa – in religione Maria Crocifissa – chiede e ottiene di prestare servizio al lazzaretto per curare le ammalate di colera e aiutarle a salvare l’anima. Un’esperienza che porterà alla nascita delle Ancelle della Carità.
«Supplicava che le croci non cessassero e le persecuzioni e le prove non le fossero risparmiate. Ed infatti, pur manifestando nella sua azione di fondatrice le più belle qualità d'intelligenza e di volere, ella soffrirà con grande coraggio i dolori fisici, e soprattutto le angosce dell’anima (...). Un’ardente preghiera sgorgava allora dalle sue labbra: “Gesù mio! Tu solo mi basti. La mia vita sia crocifissa con Te”». Questo è un passaggio dell’omelia pronunciata da Pio XII il 12 giugno 1954, giorno della canonizzazione di santa Maria Crocifissa Di Rosa (6 novembre 1813 – 15 dicembre 1855), fondatrice delle Ancelle della Carità.
Una santa, Maria Crocifissa, che come gli altri suoi “colleghi” in Paradiso prosegue la sua missione per la salvezza delle anime. Il suo nome, infatti, non risplende solo per le virtù dimostrate in vita, ma anche per quanto lei continua a fare post mortem. Basti qui ricordare il fatto che proprio Maria Crocifissa, quasi un secolo dopo la sua morte, è stata scelta da Dio nell’ambito di una delle mariofanie più ricche dell’epoca contemporanea, quella di Maria Rosa Mistica, per fare da guida alla veggente Pierina Gilli (1911-1991), apparendole molte volte dal dicembre 1944 (quando la guarì dalla meningite) in poi, preparandola alle apparizioni della Madonna, offrendole conforto e consigli spirituali. Ricordiamo che la Chiesa non ha ancora affermato l’autenticità di questa mariofania, ma nel luglio 2024 – attraverso il dialogo tra la Diocesi di Brescia e il Dicastero per la Dottrina della Fede – ha riconosciuto l’abbondanza dei frutti spirituali e la bontà dei messaggi legati a Rosa Mistica stessa.
Il secondo ciclo di apparizioni (1966) di Rosa Mistica ha un focus particolare sugli ammalati. Un elemento che si lega bene alla vita terrena della santa celebrata oggi, visto che il suo istituto religioso nacque proprio a seguito della carità eroica che Paola Francesca Maria Di Rosa – questo il suo nome secolare completo – dimostrò verso gli ammalati durante l’epidemia di colera che colpì la sua città, Brescia. Correva l’anno 1836. L’epidemia mieteva molte vittime. Il lazzaretto era pieno di malati ed era difficile trovare chi fosse disposto a curarli.
Paola, di famiglia nobile, si sentì chiamata da Dio ad assistere i colerosi. Si consigliò con il suo confessore, monsignor Faustino Pinzoni. E poi scrisse una lettera al padre, il cavalier Clemente Di Rosa, per chiedergli il permesso di andare nel lazzaretto a curarvi le donne contagiate. La missiva – datata 21 giugno 1836 – iniziava così: «Viva Gesù! Carissimo Papà, sono a pregarvi di una grazia. Ve la chiedo in iscritto, non per mancanza di confidenza a parlarvi; ma perché non mi si chiudan le parole fra le labbra con una vostra pronta negativa. Sì, la grazia che vorrei da voi, ve la chiedo per amor di Gesù Cristo. Deh! non me la negate. Il mio vivissimo desiderio sarebbe d’approfittare del mezzo che Iddio mi dà d’aprirmi il Paradiso col praticare l’atto di carità in assistere all’ospedale le povere colerose. Lasciate che mi dedichi al servizio di queste povere infelici. Voi, fate al Signore il sacrificio della vostra Paolina; io lo farò della mia vita». Qualche riga dopo, la santa aggiungeva: «Non consultate né la carne, né il sangue, ma la Religione sola. Non apporterò alcun danno alla famiglia, perché vi ho riflettuto, e prenderò tutte le misure che la prudenza suggerisce. Di queste ve ne parlerò a viva voce. Caro Papà, accordatemi questa licenza, che mi renderete felice. Vostra affez.ma obbl.ma figlia Paola».
Quale fu la risposta del genitore? Prima è opportuna una premessa. A quell’epoca il padre della santa era già vedovo e aveva già subìto la perdita di sei figli su nove (il colera gli avrebbe poi portato via un altro figlio ancora, Filippo, di 27 anni). Comprensibilmente, il cavalier Di Rosa, leggendo quella lettera, tremò. E, in attesa della sua decisione, tremarono (e piansero) non solo i familiari ma anche i domestici, che avevano una sorta di venerazione per Paolina, com’era chiamata la futura santa Maria Crocifissa. Anche il padre si consigliò con mons. Pinzoni, che lo lasciò libero di decidere in un senso o nell’altro, perché «non si tratta – gli disse il sacerdote – di un caso di coscienza, ma di un atto volontario ed eroico». Al culmine del suo dramma interiore, il padre, per amore di Dio e del prossimo, accordò il permesso alla figlia. Così, tre giorni dopo la lettera, all’età di 22 anni, Paola entrò nel lazzaretto. E vi entrò con un’altra nobile, la signora Gabriella Echenos Bornati, che accompagnerà la santa in diverse altre imprese di carità.
Il colera infestava non solo Brescia, ma tutta la provincia. Nei due giorni precedenti l’arrivo di Paola al lazzaretto, i morti erano stati rispettivamente 113 (il 22 giugno) e 87 (il 23 giugno). Lo spettacolo che si presentava davanti a lei e Gabriella era terribile, per la varietà di sintomi e i dolori lancinanti causati dal morbo. Le due infermiere volontarie dovevano «asportare tutto ciò che le ammalate emettevano, pulire incessantemente corpi, letti, pavimenti, perché in quella sporcizia si nascondeva la causa del morbo, e i medici l’avevano intuito», scriveva uno dei primi biografi della santa, mons. Luigi Fossati; tra i vari altri compiti, bisognava «coprire e portare via i morti; accogliere le nuove colpite che incessantemente e, ad ondate, entravano».
Paola prestava la massima cura a questa opera al servizio dei corpi. Ma al contempo le premeva particolarmente dare un conforto spirituale a quelle ammalate (molte delle quali moribonde), perché voleva che tutte si salvassero l’anima. Perciò si chinava su di loro, ricordava loro – anche alle più ribelli – di essere amate da Dio, trovava parole semplici per aiutarle a morire riconciliate con il Creatore. E quasi sempre riusciva nell’intento, a volte assistendo con commozione a un semplice segno di croce, fatto con le ultime forze.
Nonostante il servizio svolto nel lazzaretto, né Paola né Gabriella subirono il contagio. Fin dai primi giorni, inoltre, il loro esempio attrasse altre volontarie. Un bresciano dell’epoca, citato dal Fossati, scriveva: «Ieri chiesi a un coleroso uscito dall’ospedale come fosse stato assistito da quelle pie persone, e col pianto della gratitudine negli occhi mi rispose queste precise parole: “Quelle sante persone non sono del mio mondo, ma sono angeli! Non è possibile immaginare tanta carità. Una nobile signorina di ventidue anni!”», esclamava con ammirazione, riferendosi a Paola.
L’esperienza al lazzaretto fu la base per la nascita delle Ancelle. Infatti, Paola iniziò a visitare assiduamente le ammalate all’ospedale di Brescia. Alcune compagne la imitarono. Dopo essersi consigliata con il proprio direttore spirituale, Paola si decise a formare un gruppo stabile di giovani di buona volontà, che affiancassero le infermiere laiche già presenti all’ospedale. Verso la fine di aprile del 1840, con la benedizione del vescovo, la nostra santa iniziò a condurre vita comune con le altre compagne: si trattava del primo nucleo della Pia Unione delle Ancelle della Carità. Il 18 maggio di quello stesso anno, dopo dieci giorni di esercizi spirituali, 32 Ancelle di diversa provenienza iniziarono ufficialmente il loro servizio presso l’ospedale di Brescia. Monsignor Pinzoni assegnò a Paola, che non aveva ancora compiuto 27 anni, l’ufficio di superiora.
Furono dunque questi gli inizi delle Ancelle della Carità (erette in congregazione sotto Pio IX), nate dal cuore di una donna bresciana che ha messo la gloria di Dio e i beni eterni al di sopra di tutto.
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