Léon Krier, l'architetto che sfidava la dittatura del brutto
Ascolta la versione audio dell'articolo
Morto il 17 giugno uno dei padri del Neo Urbanesimo che all’ideologia degli scatoloni architettonici rispondeva con realismo, buon gusto e riscoperta della tradizione. Dimostrando che l'antiestetica modernista è un dogma che si può e si deve infrangere.

Buon senso e buon gusto contro l’ideologia degli scatoloni architettonici disseminati ovunque: si potrebbe sintetizzare così l’opera dell’architetto Léon Krier, morto a Palma di Maiorca il 17 giugno all’età di 79 anni. Nato a Lussemburgo nel 1946, studiò a Stoccarda senza però laurearsi. Andò invece a lavorare presso lo studio di James Stirling. Decisivi furono l’incontro e la comunanza di vedute con il futuro re Carlo III del Regno Unito, con cui condivise pure le solite trite accuse di passatismo, «perché si davano tutti arie da progressisti, anche il mio amico Stirling, anche se so per certo che segretamente votava conservatore», disse nel maggio 2023, intervistato da Michele Masneri su Il Foglio.
Nel lontano 1984, in occasione del 150° anniversario del Royal Institute of British Architects, l’allora principe di Galles si chiedeva: «Perché tutto deve essere verticale, dritto, senza pieghe, solo ad angolo retto – e funzionale?». L’erede al trono britannico salutava la «gradita reazione al movimento moderno», affermando che non ci si deve «sentire in colpa o ignoranti per la naturale preferenza verso progetti più tradizionali». A partire dagli anni Novanta il principe Carlo affidò a Léon Krier la realizzazione del villaggio di Poundbury, nel ducato di Cornovaglia. Dove insieme al bello si sono riscoperte anche competenze perdute: «abbiamo dovuto ricostruire da zero le competenze di muratori: come costruire un camino, per esempio, di mattoni» – raccontò nella citata intervista al Foglio. «Nessuno sapeva più farlo. E ci guardavano tutti malissimo. Poi dopo però si è creata una generazione di artigiani pazzeschi, che hanno ricominciato a costruire in maniera tradizionale, ormai se giri per l’Inghilterra vedi delle costruzioni fatte bene, e c’è da scommettere che qualcuno ha lavorato a Poundbury».
Poundbury incarna i principi del Neo Urbanesimo (New Urbanismo) di cui Krier è stato uno dei padri. Principi visibili anche in Italia dove Léon Krier ha lavorato nel quartiere fiorentino di Novoli o nel progetto “Città Nuova” di Alessandria. Un movimento che apprende dal passato invece di rifiutarlo a priori. Ma non ci si immagini un mero copia-incolla delle forme precedenti. Si tratta piuttosto di privilegiare l’organicità, l’identità dei luoghi e l’architettura vernacolare rispetto all’indistinzione delle forme che ha reso ormai indistinguibili le aree urbane e specialmente periferiche di qualsiasi città europea; le dimensioni “a misura d’uomo” rispetto alle megalopoli...
Si potrebbe continuare a lungo, consapevoli però che questi principi non sono un elenco di precetti imposti a tavolino, anzi, «sono simili ai precetti morali, piuttosto che alla sofisticata tirannide delle riforme utopiche. Non sono prescrittivi ma piuttosto permissivi», dal momento che «l’architettura e l'urbanistica tradizionale non sono una ideologia, neanche una religione o un sistema trascendentale», spiegava sempre Krier in un’altra e ampia intervista concessa a Nikos Salingaros (Archimagazine) in cui parlava dell’architettura come «un corpo disciplinare, una fonte del saper fare, che vi permette di costruire delle città soddisfacenti dal punto di vista pratico, estetico, sociale ed economico in situazioni climatiche, culturali, ed economiche molto diverse». Una visione aliena da qualsiasi pretesa ideologica o utopistica, compresa l’illusione di «assicurare la felicità della gente», semmai – molto più realisticamente – di «facilitare per la maggioranza delle persone la ricerca della loro felicità individuale o collettiva».
Siamo ben lontani da certi esperimenti di nuove architetture per creare l’“uomo nuovo” come quelli descritti in Maledetti architetti (Bompiani, Milano 2016), saggio “esteticamente scorretto” dello scrittore americano Tom Wolfe, e tutti all’insegna di facciate lisce, lotta all’ornamento e interni ospedalieri. Per esempio gli alloggi operai di Pessac o di Stoccarda commissionati a Le Corbusier, il creatore delle “macchine per abitare”: «E agli operai piacevano gli alloggi operai?» – si chiedeva sarcasticamente Wolfe – «A Pessac i poverini facevano salti mortali per trasformare i freddi cubi di Corbu in qualcosa di intimo e colorato. Era comprensibile. Come lo stesso Corbu aveva detto, essi andavano “rieducati”». Ma anche senza scomodare rieducazioni politiche, lo stesso effetto è visibile ovunque in quella pretesa funzionalità asettica che, mentre innalza edifici tutti uguali finisce per livellare le identità. E qui torniamo a Krier che denunciava senza mezzi termini «l'arbitrarietà e il terrorismo intellettuale rappresentato dal moralismo modernista».
Il "dogma" architettonico vigente è modernista, non moderno: ci teneva a sottolinearlo Krier (intervista di Mirza Mehaković su Tristotrojka, 13 gennaio 2019), lamentando «l'appropriazione fraudolenta del termine “moderno”, col presupposto che la loro sia l'unica forma legittima di modernità nell'arte e nell'architettura» e con la parallela erronea insinuazione «che praticare l'arte e l'architettura tradizionali oggi sia arretrato e quindi anacronistico». Una appropriazione che definiva «errata, ideologica, intollerante e antidemocratica» e considerava « l'unica responsabile di un analfabetismo architettonico generalizzato» e anche di un degrado visivo che ha proseguito, per altre vie, i danni inflitti in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Egli stesso confidava «la “fortunata sfortuna” di crescere in città che erano state risparmiate dalle distruzioni belliche, ma che avevano già subito le tragiche conseguenze delle politiche di riqualificazione modernista», che non a caso è indicata anche col termine di brussellizzazione. E infatti Krier ne coglieva i simboli più eloquenti negli «edifici dell'Unione Europea a Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (...), una nemesi dell'urbanistica e dell'architettura europea tradizionale».
All’autodemolizione architettonica dell’Europa Léon Krier preferiva «quelle città e quei paesaggi che erano il risultato di migliaia di anni di fatiche, intelligenza e cultura dell'uomo», invitando a riconoscevere «il valore assoluto delle città preindustriali, delle "città di pietra"», che «per millenni hanno corrisposto alla triade vitruviana di stabilità, bellezza e utilità» (firmitas, venustas, utilitas). E faceva appello al «senso della bellezza innato nella maggior parte degli esseri umani», senza sentirsi in dovere di cedere all’«ipocrisia estetica» che impone di omaggiare tutto ciò che è moderno, anzi modernista. La principale lezione che ci lascia Léon Krier è che la nostra epoca si può salvare da quella condanna al brutto che si è auto-inflitta in nome dello Zeitgeist. Una lezione necessaria, poiché più bello significa anche più vivibile.
Scampia, l’utopia della sinistra dietro il degrado delle Vele
Celebrati ieri tra le polemiche i funerali delle vittime della tragedia del 22 luglio scorso, resta la presenza di un mostro architettonico che risale agli anni Sessanta ed è figlio dell’ideologia di sinistra. Che ha trasformato Scampia in un ghetto metropolitano.
Scruton ci ricordava quanto conta la bellezza nella civiltà
Sir Roger Scruton, il filosofo britannico morto la settimana scorsa, era noto per essere un tenace difensore dell’importanza assoluta della bellezza. Dal suo punto di vista, nell'ultimo secolo, tutte le forme d'arte occidentali hanno progressivamente rinunciato al perseguimento della bellezza, soprattutto a causa dell'ateismo
Brutto sogno di una notte di mezza Expo
Lo scrivente è stato all’Expo. Avvertenze per l’uso di questo articolo: lo scrivente non è un expologo né un intenditore di questioni alimentari. In merito a questo ultimo punto si può solo professare un ignorante entusiasta della buona cucina. Mi sono recato presso la spianata dell’esposizione universale il 31 luglio scorso. Tre mesi erano trascorsi dall’apertura e tre mesi dovevano passare dalla chiusura.
Così la contemporaneità ha sposato il trash
Prima puntata di un viaggio a ritroso nel tempo per ribellarsi all'attuale tirannia del brutto e riscoprire il bello della tradizione estetica.