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firma storica

Le armi tacciono a Gaza, ma per la vera pace bisogna archiviare l'odio

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Trump alla Knesset ribadisce che gli accordi devono mettere fine all'era del terrore e della morte. E a Sharm sigla un accordo storico con i leader arabi. Da ieri le armi tacciono a Gaza, gli ostaggi sono tornati a casa, ma per una vera pace l'odio dovrà cedere il passo al rispetto. 

Esteri 14_10_2025

7 ottobre 2023 e 13 ottobre 2025, due date che Israele difficilmente dimenticherà. Nel paese si festeggia l’inizio dello Simcha Torà. Ma è anche il giorno in cui i familiari dei venti ostaggi hanno potuto riabbracciare i propri cari, dopo 738 giorni di crudele prigionia. Lo Simcha Torà, una festività ebraica legata a quella del Sukkot, in cui si conclude il ciclo annuale della lettura della Torà e s’inizia quello successivo, nel 2023, cominciava proprio in quel tragico e drammatico 7 ottobre, nello stesso giorno in cui i miliziani di Hamas attaccavano Israele uccidendo almeno 1.200 israeliani e ferendone più di 3.300. Una ricorrenza religiosa che archivia una triste pagina di storia recente, sia per Israele che per la Striscia di Gaza e potrebbe dare inizio ad un futuro pieno di aspettative e attese. E così è avvenuto, ieri, anche per il popolo palestinese, dopo la liberazione di 1.968 prigionieri dai centri di detenzione israeliani, come stabilito dall'accordo per il cessate il fuoco. Nella Striscia sono stati uccisi oltre 67mila persone. Da ieri le armi tacciono.

«Abbiamo dimostrato che la pace non è solo una speranza, ma una realtà che possiamo costruire giorno dopo giorno». Sono le parole che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha pronunciato ieri mattina, a Gerusalemme, alla Knesset, il parlamento israeliano. «Questa non è solo la fine di una guerra – ha proseguito -. Questa è la fine dell’era del terrore e della morte e l’inizio dell’era della fede, della speranza e di Dio». «È l’inizio di una grande concordia e di un’armonia duratura per Israele e per tutte le nazioni di quella che presto diventerà una regione davvero magnifica. Ne sono fermamente convinto. Questa è l’alba storica di un nuovo Medio Oriente. Gli Stati Uniti – ha concluso Trump - hanno pianto insieme a voi il 7 ottobre e tutti in Israele devono sapere che l’America è con voi». L’intervento a braccio del presidente americano è durato sessantasei minuti ed è stato più volte interrotto da lunghi applausi.

Durante il discorso di Trump, Ayman Odeh, arabo-israeliano e Ofer Cassif, ebreo, parlamentari del partito di sinistra Hadash, hanno esibito dei cartelli su cui era scritto “Recognize Palestine”. I due deputati sono stati allontanati dall’aula, mentre i loro colleghi applaudivano, con più forza, Trump. Poco dopo, sul suo profilo social, Cassif così spiegava la sua protesta: «Una vera pace arriverà solo con la fine dell'occupazione e dell'apartheid e con la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele». Odeh, sempre sul suo canale, dichiarava: «Sono stato espulso dalla sessione plenaria semplicemente perché ho esibito la richiesta più semplice, una richiesta su cui l'intera comunità internazionale è d'accordo: riconoscere lo Stato di Palestina. Basta riconoscere questa semplice realtà: ci sono due popoli e nessuno si muove da qui». 

Benjamin Netanyahu nel corso del suo intervento, rivolgendosi al presidente statunitense, ha sottolineato che nessun presidente americano ha fatto per Israele più di Trump. Lo ha ringraziato per essersi schierato con Israele contro le menzogne dell'Onu e per aver riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan.

Dopo la sosta in Israele, Trump ha raggiunto l’Egitto, dove i leader arabi ed europei si sono riuniti per assistere alla firma dell’intesa. Con un piccolo incidente: l’annunciata presenza di Netanyahu a Sharm el-Sheikh è stata cancellata a causa della forte opposizione di diversi paesi, in particolare della Turchia. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, mentre si preparava ad atterrare al Cairo, ha telefonato al presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, informandolo che sarebbe ritornato ad Ankara se il primo ministro israeliano avesse preso parte al vertice.

Donald Trump, parlando con al-Sisi, ha sottolineato che la fase due dell’accordo è già iniziata, invitandolo a far parte del Board of Peace, la struttura che dovrebbe controllare la ricostruzione di Gaza. A tal proposito, il presidente egiziano ha annunciato che a novembre si terrà al Cairo una conferenza sulla ricostruzione della Striscia. Sebbene la sigla dell’accordo rappresenti un momento di grande speranza, la realtà politica della regione rimane complessa. Cautela, dialogo e soluzioni realizzabili saranno indispensabili per garantire una pace duratura.

Ma sarà vera pace? È la domanda ineludibile che lascia trapelare un certo scetticismo, nonostante la solenne cerimonia della firma e le dichiarazioni altisonanti del presidente americano, al quale, comunque, va riconosciuto il merito di questo primo accordo. Il cessate il fuoco è sempre l’inizio di una possibile intesa verso la pace. Ma sarà un processo lungo e tortuoso, con trattive a volte pubbliche, a volte sotterranee. Odio, vendetta e diffidenza reciproca, disprezzo vicendevole affiorato nelle dichiarazioni delle due parti, in questi due anni di ostilità, dovranno lasciare il posto al rispetto, perlomeno formale.

L’odio tracimato nei cuori di israeliani e palestinesi sarà il vero ostacolo alla pace. Ieri a Tel Aviv, a Gaza e a Ramallah, vincitori e vinti, hanno festeggiato la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri, ma entrambi avrebbero voluto che morte e devastazione non fossero mai iniziate. Ci si augura, comunque, che la firma di ieri in Egitto non rappresenti un atto formale, ma possa essere l’evento apripista in grado di influenzare dinamiche positive interne, regionali e globali. L’accordo odierno può chiudere la fase delle ostilità e aprirne un’altra di nuove sfide e opportunità, la cui gestione richiede sensibilità politica, diplomazia e attenzione agli equilibri delicati dell’area.



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