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IL DECRETO

Lavoro, Renzi si piega al volere dei sindacati

Il Decreto Lavoro, su cui è stato posto il voto di fiducia, è talmente annacquato da risultare controproducente. Nel testo si scorge molta della rigidità del mercato del lavoro chiesta dalla sinistra massimalista e dai sindacati.

Politica 24_04_2014
Cgil

Ieri il Governo ha dovuto porre la fiducia sul decreto lavoro, altrimenti neppure alla Camera, dove la maggioranza che sostiene l’esecutivo è assai ampia, Renzi avrebbe potuto dormire sonni tranquilli. Avvisaglie dei primi smottamenti nello schieramento che lo sostiene? Troppo presto per dirlo, probabilmente no, visto che il governo è in carica solo da due mesi e che le roboanti promesse fatte dal premier potranno avere i primi riscontri concreti fra qualche tempo. Tuttavia, sul decreto lavoro si è avuta una prima lampante dimostrazione di come il Presidente del Consiglio, pur col piglio decisionista che lo contraddistingue, si sia dovuto piegare ai diktat della sinistra massimalista e pan-sindacalista.

La versione del decreto approvata a Montecitorio, dopo le modifiche in commissione lavoro, appare la copia sbiadita di quella varata dal Consiglio dei ministri e che aveva incontrato il convinto gradimento delle forze centriste dell’esecutivo (Nuovo Centrodestra e Scelta civica) e perfino la non aperta ostilità di Forza Italia. Ora la partita si gioca al Senato, dove i centristi saranno decisivi e potrebbero chiedere di tornare al testo originario, il che comporterebbe un nuovo passaggio alla Camera, con evidenti rischi di sforamento del termine del 20 maggio, data di scadenza del decreto.

La versione sulla quale il governo è stato costretto a porre la fiducia piace, non a caso, alla Camusso e alla Cgil, ma anche ai settori più ideologici del Partito Democratico, come attestano le dichiarazioni di Damiano. Non convince, invece, le forze di ispirazione liberale, dominanti nel centrodestra, che lamentano un passo indietro verso meccanismi di eccessiva rigidità nel mercato del lavoro. Rispetto alla Legge Fornero, il decreto estende da uno a tre anni la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato senza causale, ovvero senza ragione dell'assunzione. Se un imprenditore, per ragioni legate alla gestione della sua azienda e perché non ha certezze rispetto all’andamento della sua attività, intende assumere con contratti a termine per non vincolarsi ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non può farlo se non per periodi limitati. La versione iniziale del decreto prevedeva un massimo di otto proroghe contrattuali per complessivi 36 mesi, ora si è scesi al tetto di cinque proroghe.

Altra marcia indietro rispetto alle aperture alla flessibilità annunciate da Renzi riguarda la percentuale di lavoratori assumibili con contratti a tempo determinato: non potranno essere, in ciascuna azienda, più del 20% degli assunti a tempo indeterminato e addirittura un’azienda con 5 dipendenti potrà assumere al massimo un dipendente con contratto a termine (gli altri dovranno essere necessariamente a tempo indeterminato). Ma nelle condizioni di incertezza economica attuali, con le imprese ancora tartassate dalle tasse più alte d’Europa, come si può sperare che l’occupazione riparta vincolando in maniera così rigida i datori di lavoro?

In materia di apprendistato, la commissione lavoro della Camera ha ripristinato l'obbligo di un piano formativo individuale in forma scritta, inizialmente cancellato dal governo nella prima versione del decreto approvata in Consiglio dei ministri, ma ha previsto modalità semplificate di redazione di quel piano. Per le aziende con più di trenta dipendenti c'è l'obbligo di assumere il 20% degli apprendisti, altra norma frenante rispetto alla libertà d’impresa: e se tutti gli apprendisti o più dell’80% di essi si dimostrassero inadatti alle mansioni richieste dall’azienda, perché questa dovrebbe avere comunque l’obbligo di assumerne qualcuno? Il testo originario del governo non contemplava questa norma, ora è stata introdotta su pressione della Cgil e dei settori più oltranzisti della sinistra, penalizzando ancora una volta la competitività del nostro sistema imprenditoriale.

Timide concessioni al sistema imprenditoriale arrivano invece dalla previsione di riduzioni contributive per i datori di lavoro che stipulassero contratti di solidarietà e di semplificazioni burocratiche rispetto agli adempimenti previsti in capo alle imprese.

In definitiva, quelle contenute nel decreto sono misure che, in mancanza di una sensibile riduzione delle tasse a carico delle imprese, finirebbero per penalizzare ancor più l’occupazione, scoraggiando nuovi ingressi di forze fresche nel mercato del lavoro. Obbligare le aziende ad assumere a tempo indeterminato in una situazione di incertezza economica e di mercato significa far ricadere interamente sui datori di lavoro il rischio d’impresa e scoraggiarli rispetto a ogni ipotesi di ampliamento e consolidamento delle attività. La flessibilità è l’unica ricetta che in un mercato del lavoro sempre più globale come il nostro può consentire al sistema imprenditoriale di uscire dalla crisi garantendo alle imprese nazionali standard occupazionali rassicuranti e un costo del lavoro competitivo con quello di altre economie.

Il governo Renzi, ponendo la fiducia su un decreto così sbilanciato in favore dei lavoratori, ha fatto un autogol imprevisto. C’è da sperare che i centristi facciano valere i principi liberali dei quali si dicono paladini e inducano il Senato a un supplemento di riflessione su un tema così delicato e decisivo per il futuro del Paese.