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riflessione

La voracità dei diritti dissolve le basi dell’ordine giuridico

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La modernità politica si fonda sulla pretesa dell’individuo di veder riconosciute le proprie rivendicazioni, potenzialmente illimitate. Ritornare al paradigma classico significa quindi restituire al diritto la sua dimensione metafisica e la natura originaria di manifestazione della giustizia.

Cultura 26_11_2025
GIULIA PALMIGIANI - IMAGOECONOMICA

L’epoca presente vive immersa in una sorta di inflazione antropologica dei diritti. Non si tratta soltanto della loro moltiplicazione normativa, bensì della loro trasformazione in principio ordinatore dell’intero immaginario politico e giuridico. La cultura contemporanea pensa l’umano a partire da una serie crescente di pretese soggettive, che cercano riconoscimento pubblico nella forma del diritto positivo. Le istituzioni, la giurisprudenza, il dibattito politico appaiono orientati attorno a questo assioma tacito: l’individuo coincide con la sua capacità di rivendicare e la giuridicità si misura sull’efficienza con cui tali rivendicazioni vengono accolte e garantite.

In questo quadro il desiderio (il velle volutum) diventa titolo, la volontà diventa fonte, l’autodeterminazione diventa criterio. La logica interna di tale sistema produce un’espansione incessante del diritto soggettivo, poiché nulla, nel paradigma moderno, indica il punto in cui la pretesa debba arrestarsi. Questa configurazione deriva da un’impostazione teoretica che costituisce il nucleo della modernità politica. Con Hobbes e Locke, con Rousseau e il razionalismo giuridico, l’ordine non viene più colto come dato ontologico che precede l’agire umano: diventa costruzione artificiale, frutto dell’accordo tra individui originariamente isolati.

L’ente politico, anziché radicarsi in una natura sociale dell’uomo, si fonda sul consenso tra soggetti che si percepiscono anteriori e superiori al corpo comunitario. La volontà precede la legge, il contratto precede la comunità, l’autonomia precede la giustizia. In questo slittamento il diritto, da dimensione del giusto, diventa garanzia delle opzioni soggettive. L’adesione alla volontà come principio fondativo dissolve la misura intrinseca del reale. Se la fonte del giuridico coincide con l’arbitrio umano, il diritto non può che proliferare secondo la dinamica del desiderio, che per sé non conosce compimento né limite.

La tradizione classica si colloca, invece, all’estremo opposto di questo arco teorico. Aristotele e Tommaso d’Aquino concepiscono la giustizia non come tecnica di bilanciamento delle volontà individuali, bensì come relazione proporzionale radicata nell’ordine dell’essere. Il giusto è una realtà prima rispetto a ogni determinazione giuridica, perché il reale possiede una struttura intelligibile che orienta l’agire umano. L’uomo non appare come monade, bensì come sostanza relazionale la cui perfezione richiede la partecipazione al bene comune. Il diritto esprime questa architettura ontologica, poiché assegna a ciascuno ciò che gli è dovuto in ragione della sua collocazione nell’ordine del tutto. La comunità politica non scaturisce dall’accordo, ma dalla natura, e la legge non trae autorità dal consenso, bensì dal suo radicamento nella giustizia oggettiva. La filosofia classica ignora il concetto di diritto soggettivo perché non conosce quell’individualismo ontologico che ne è la premessa.

L’uomo classico non vive nella dimensione dell’autoaffermazione illimitata, e il suo rapporto con il bene non passa attraverso la categoria della rivendicazione. La sua dignità si inscrive nel tessuto della realtà, non si afferma contro di esso. Egli non pretende di definire autonomamente il proprio spazio giuridico, ma si riconosce in un ordine che lo precede e che orienta la sua libertà verso la realizzazione delle potenzialità connesse alla sua natura. La libertà stessa assume un significato teleologico: non è illimitata apertura al possibile, è potenza ordinata al perfezionamento della persona e della comunità. In questa prospettiva il diritto non coincide con la sfera delle pretese, bensì con la forma della giustizia. Esprime la misura oggettiva che consente alla molteplicità delle relazioni sociali di disporsi secondo armonia. È una realtà intrinsecamente proporzionale, non un contenitore da riempire con i desideri individuali. La sua forza si radica nell’essere, non nella volontà.

Per questo la concezione classica riesce a offrire un quadro più stabile, più coerente e più realistico: riconosce che l’uomo vive di limiti costitutivi, che il bene comune non nasce dalla somma delle pretese, che la giustizia esige una visione del mondo capace di trascendere la soggettività. Ritornare, allora, alla concezione classica non significa compiere un gesto archeologico né evocare formule inattuali. Significa riaprire lo spazio della metafisica del giuridico in un contesto in cui tutto sembra ridotto alla dimensione del possibile.

La modernità, costruita sulla potenza illimitata della volontà, non può arrestarsi: ogni desiderio escluso rivendica riconoscimento, ogni limite viene accusato di ingiustizia, ogni ordine viene interpretato come imposizione. La logica interna del paradigma moderno non consente equilibrio, perché l’assenza di una misura superiore rende ogni confine arbitrario. Il diritto soggettivo, in tal modo, si trasforma in una macchina che consuma il giuridico stesso: più cresce, più dissolve la possibilità della giustizia. La filosofia classica, al contrario, offre un modello nel quale il giuridico recupera spessore ontologico. L’ordine politico non nasce dalla somma delle libertà individuali, ma dall’unità della vita comunitaria; la libertà non si afferma mediante rivendicazioni crescenti, ma attraverso la conformazione al vero e al bene; la giustizia non si misura sulla soddisfazione soggettiva, ma sulla proporzione che governa le relazioni tra le parti.

L’uomo riscopre così la sua verità profonda: essere parte di un tutto intelligibile, orientato a un fine che non dipende dalla sua volontà. In questo orizzonte la dignità non si disgrega nella molteplicità delle pretese, ma si compie nella partecipazione all’ordine che fonda la possibilità stessa del giuridico. Una ricostruzione metafisica del diritto diventa, quindi, condizione indispensabile per restituire senso alla politica e forma alla convivenza umana. Il ritorno al paradigma classico non reprime la persona, la custodisce; non riduce la libertà, la orienta; non limita l’umano, lo eleva. Solo dentro questa architettura teoretica è possibile superare la voracità dei diritti che caratterizza la modernità, poiché solo un ordine radicato nell’essere può contenere la potenza espansiva della volontà e restituire al diritto la sua natura originaria: essere manifestazione della giustizia.