La Passione del Signore (II parte) – Il testo del video
Altri elementi di convenienza legati alla Passione sono il luogo e il tempo in cui patì Gesù, nonché la sua morte tra i due ladroni. Salvezza e giudizio. Una questione dibattuta: quando il Signore mangiò la Pasqua? I due calendari allora in uso in Terra Santa.

Oggi dedichiamo la seconda catechesi al tema della Passione di Cristo. Siamo sempre nella III parte della Somma Teologica e la scorsa volta abbiamo iniziato a commentare quella sezione composta da 15 quæstiones e che riguarda i misteri della passione, morte, risurrezione, ascensione al cielo e quindi glorificazione del Signore Gesù. In particolare abbiamo iniziato la quæstio 46 vedendo i primi quattro articoli, dedicati ad analizzare in che senso possiamo parlare della necessità della passione e morte del Signore, nonché gli elementi di convenienza della passione del Signore e della sua morte in croce.
Oggi proseguiamo questo filone. Vedremo altri elementi di convenienza legati alla passione del Signore, in particolare il luogo – cioè se era conveniente che il Signore patisse e morisse a Gerusalemme – e il tempo, in cui questo è avvenuto. E poi, ancora, la questione della convenienza che Cristo morisse tra due ladroni. Ma prima di vedere questa parte, ci dedichiamo a un altro nucleo di articoli, che vanno dal quinto all’ottavo, che riguardano la domanda su come Cristo abbia sofferto. Una domanda che non è gratuita e nemmeno frutto della volontà di fare speculazioni; in realtà, san Tommaso la vuole affrontare per una ragione ben precisa: bisogna sempre ricordarsi come Cristo ha patito nella sua realtà teandrica del Figlio di Dio, cioè la realtà delle due nature del vero uomo e del vero Dio, unite nell’unica persona del Verbo.
È chiaro – e questo san Tommaso lo affronta nell’art. 12 – che quando noi parliamo della passione del Signore dobbiamo riferirci a ciò che può patire la natura umana del Signore. E tuttavia dobbiamo tener presente che, in ragione dell’unità della persona del Verbo, noi possiamo dire che è Dio che patisce ed è Dio che muore in croce, non chiaramente riferendoci alla divinità, ma riferendoci all’umanità assunta da Dio. Ricordiamo che il soggetto che soffre e muore in croce è uno. Non bisogna confondere le due nature o azzerarne una. Dall’altra parte, bisogna sempre ricordare di non separare la persona, come se fossero due persone.
Negli articoli 5-8, san Tommaso si chiede prima di tutto in che senso possiamo dire che Cristo abbia portato su di Sé tutte le sofferenze della vita umana, di questo mondo. Chiaramente, dice san Tommaso, questo non possiamo dirlo quanto alla specie delle sofferenze: Cristo non ha patito tutte le singole sofferenze che esistono su questa terra e che colpiscono gli uomini. Abbiamo dedicato alcune catechesi relativamente a come possiamo pensare che Cristo abbia sofferto; se ricordate, per esempio, abbiamo escluso le malattie spiegando anche il perché; ma al di là di questo, sarebbe impensabile che il Signore abbia patito tutte le malattie che possono esistere e che esisteranno da qui alla fine della storia dell’umanità.
Quando invece parliamo della totalità delle sofferenze, san Tommaso ci dice che questo va inteso in diversi sensi: anzitutto, nell’art. 5, ci dice che va inteso quanto alla totalità degli uomini, delle categorie umane. Infatti Tommaso ci dice che Gesù ha patito, ha sofferto a causa sia dei pagani, sia dei gentili, le due grandi categorie dell’umanità dal punto di vista della storia della salvezza. Ha poi patito a causa degli uomini e delle donne: per gli uomini è chiaro, per le donne lo vediamo ad esempio con le due serve che accusano Pietro e quindi dimostrano in qualche modo di essere anche loro dalla parte di chi parteggiava per la condanna del Signore. Ancora, subisce le sofferenze dai principi e dal popolo, dai sacerdoti e dai non sacerdoti. Quindi potremmo dire che la totalità delle categorie umane è presente nella passione del Signore ed è la causa delle sofferenze da Lui patite.
Ancora, possiamo dire che nella passione del Signore abbiamo, per tipologia, per genere, tutto quello che un uomo può patire: ripeto, “per genere”, non come singoli dolori. San Tommaso ci dice che in Gesù abbiamo, per esempio, la sofferenza riguardo agli amici che lo abbandonano o tradiscono. Ancora, abbiamo tutte le sofferenze che derivano dal fatto che il proprio buon nome, la propria fama (nel senso positivo del termine) viene calpestata, annientata, soffrendo la calunnia, l’infamia. L’onore di Gesù viene decisamente calpestato durante la sua passione, tramite le derisioni, gli insulti, gli sputi. Ancora, la sofferenza che proviene dalla privazione delle cose: nella passione il Signore viene privato di tutto, incluse le sue vesti, con lo spogliamento totale. Ancora, i patimenti dell’anima, dalla tristezza al timore, alla repulsione, alla nausea del vivere.
Poi, c’è il corpo. Sappiamo che il corpo di Gesù patisce in tutte le sue membra, in tutte le sue componenti, dalla testa ai piedi. Pensiamo alla flagellazione e non solo. Patisce nella totalità dei suoi sensi, perché il Signore viene provato dalla sofferenza in ogni senso: in quello che vede; in quello che è costretto ad ascoltare; nel gusto ( immaginiamo l’alterazione del gusto che può aver provato con la febbre, la mancanza di idratazione, con l’aceto che gli è stato dato); per il tatto, è superfluo parlarne; per l’olfatto, immaginiamo il contesto della passione. Quindi, riguardo a tutte le dimensioni delle sofferenze che gli uomini possono patire per modalità, per tipologia, per estensione, possiamo dire che il Signore ha sofferto veramente tutto.
Ancora, nell’art. 6 san Tommaso si pone una domanda sull’intensità dei dolori sofferti dal Signore. Ed è interessante, perché questo è un aspetto su cui veramente bisogna soffermarsi a riflettere. Noi sappiamo che l’umanità del Signore era un’umanità perfetta, cioè un’umanità che proveniva dalla Santa Vergine, concepita senza peccato, creata per opera dello Spirito Santo ed essa stessa non soggetta alle conseguenze del peccato originale. Quindi, l’umanità del Signore era priva di tutte le imperfezioni che sono derivate da quella colpa. E questo significa una cosa importante: che il Signore – sia nella sua corporeità sia nella sua anima – aveva una particolare sensibilità, era estremamente sensibile, recettivo. E questo nel bene e nel “male”. In che senso nel male? Nel senso che, più di ogni altra creatura, il Signore era sensibile al male, all’errore, all’ingiustizia, alla calunnia, al rifiuto, così come era sensibile dal punto di vista del suo corpo. E questo ci permette di capire come i dolori della passione del Signore, nel suo corpo e nella sua anima, fossero amplificati da questa sua sensibilità che gli derivava da questa umanità perfetta.
Negli articoli 7 e 8, a cui accenniamo rapidamente, san Tommaso ricorda che quando parliamo della totalità dell’anima di Gesù dobbiamo sempre ricordare una verità di fondo, e cioè che, nella parte superiore della sua anima, il Signore gode fin dal suo concepimento della visione beatifica. Dunque, nella passione non viene meno questo aspetto. Uno può dire: “Allora, è una finta passione?”. No. Il punto è che pur mantenendosi le potenze superiori nella visione beatifica, tuttavia, le potenze inferiori e il corpo non potevano beneficiare di questa visione beatifica. Detto in altro modo, la visione beatifica della parte superiore dell’anima del Signore non ridondava sulla parte inferiore e sul corpo. E dunque questo vuol dire che il Signore ha veramente patito, ha veramente sofferto. Questa sofferenza non ci sarebbe stata qualora – ed è quello che avviene e avverrà in cielo – questa visione beatifica fosse andata a ridondare, a permeare tutta l’anima, anche le potenze inferiori, e il corpo (in cielo ciò avverrà quando i corpi risorgeranno per andare a riunificarsi all’anima).
È importante tenere presente questo aspetto perché ci ricorda sempre di non cadere nella facile tentazione di pensare che, siccome era Dio, non ha sofferto; abbiamo visto che non è così, anzi la perfezione della sua umanità ha fatto sì che soffrisse di più e la visione beatifica non ha impedito questa sofferenza. Oppure, dall’altra parte pensare che colui che pativa era un semplice uomo, un grande uomo, ma un semplice uomo; e anche questo non è vero.
A partire dall’art. 9, san Tommaso riprende quel filone che abbiamo interrotto la scorsa volta, cioè il discorso sulla convenienza della passione del Signore e in particolare di alcuni suoi elementi specifici. Ricordate che quando abbiamo iniziato a vedere i misteri della vita del Signore Gesù – di cui chiaramente la passione è un aspetto fondamentale, in quanto tutta la vita del Signore mirava a questa “ora”, della passione, morte e risurrezione –, abbiamo visto anche i vari elementi di opportunità: perché le tentazioni dovessero essere di un certo tipo e non di un altro, perché era conveniente che il Battesimo avvenisse nel Giordano e non in un altro fiume, eccetera.
Dunque, continuiamo questa serie con l’art. 9, che pone la questione se la passione del Signore sia avvenuta nel tempo opportuno. Qui – così come per l’art. 10 in cui ci si chiede se fosse conveniente che la passione di Gesù avvenisse a Gerusalemme – prenderemo spunto da Tommaso, ma faremo anche altre riflessioni che sono poi maturate con la scoperta di alcuni aspetti dell’antica tradizione giudaica e che gettano luce proprio sulla convenienza di certi momenti, di una certa data e di un certo luogo in cui avvengono i misteri della passione del Signore.
Nell’art. 9, in particolare nella risposta alla prima obiezione, san Tommaso si trova ad affrontare quella che è un po’ una crux degli esegeti, dei biblisti e in generale di chi si interessa delle Sacre Scritture, in particolare del Nuovo Testamento, cioè il fatto di capire quando siano avvenute effettivamente la crocifissione e morte del Signore, e di conseguenza quando il Signore ha celebrato l’Ultima Cena. Perché? Perché dal punto di vista della cronologia esistono due tradizioni: la prima, che è quella dei sinottici, secondo cui Gesù avrebbe celebrato una cena pasquale prima della sua passione. Secondo alcuni esegeti, proprio perché i sinottici pongono l’Ultima Cena prima della passione del Signore, quella non poteva essere una cena pasquale. Perché non poteva esserlo? Perché il Vangelo di san Giovanni, quindi l’altra disposizione cronologica, ci dice invece che il Signore venne crocifisso il giorno della Parasceve, e i Giudei non potevano contaminarsi quel giorno perché avrebbero dovuto mangiare la Pasqua la sera, perché la Parasceve indicava appunto la vigilia della Pasqua e dunque il Seder pasquale, la cena pasquale veniva consumata alla sera.
Ora, qui non è facilissimo districarsi in questa questione. Non c’è una risposta definitiva e inequivocabile. Tuttavia, vorrei presentarvi quella che fu un’opera a mio avviso degna di menzione per il recupero della riflessione storica su questo argomento, che è il lavoro di Annie Jaubert, una storica che, negli anni Cinquanta del XX secolo, pubblicò una monografia [La Date de la Cène. Calendrier biblique et Liturgie chrétienne, Parigi, 1957] tutta dedicata a questo tema e propose questa soluzione sulla base dell’esistenza provata di due calendari, uno dei quali attestato dal cosiddetto Libro dei Giubilei.
In sostanza si tratta appunto di due calendari, ai quali corrispondono due datazioni diverse della Pasqua. Il primo era quello ufficiale del Tempio, in uso quindi per la datazione della Pasqua e dei riti legati al Tempio. Secondo questo calendario, sostanzialmente lunare, dunque basato sul ciclo della luna, con dei mesi di 29-30 giorni, la Pasqua doveva sempre cadere il 15 di Nisan, che era il primo mese dell’anno. E quindi il giorno prima, il 14 di Nisan, gli agnelli venivano immolati per poi essere manducati, consumati nel Seder pasquale, nella cena pasquale. Questo era il calendario ufficiale, più diffuso e tuttavia non era l’unico.
Ce n’era un altro che poteva rivendicare una maggiore antichità e che anzi in qualche modo si poneva in antitesi rispetto al calendario ufficiale (ritenuto una sorta di riforma successiva che aveva poi tradito quello più antico) e che era invece un calendario solare. Questo calendario solare si basava su 364 giorni all’anno, in modo tale che ogni nuovo anno iniziasse nel giorno di mercoledì. Perché il mercoledì? Perché il mercoledì è il terzo giorno della Creazione, quindi è il giorno dove abbiamo la creazione degli astri, ed è solo con gli astri che inizia il computo del tempo, il calendario. Potremmo dire che è il primo giorno “calendarizzabile”.
Ora, secondo questo calendario solare, il primo giorno dell’anno era sempre un mercoledì e la Pasqua doveva sempre cadere in un mercoledì del mese di Nisan, ma calcolato sempre secondo questo calendario. Perciò, nei due calendari, Pasqua poteva cadere con una discrepanza di alcuni giorni. Chi usava questo calendario? Tre diverse componenti del mondo giudaico dell’epoca e in particolare gli esseni. Gli esseni, probabilmente per una contestazione, una rottura con il mondo sacerdotale, avevano conservato questo calendario, ma non erano gli unici. Annie Jaubert ipotizza che il Signore abbia consumato il Seder pasquale secondo il calendario solare e dunque avrebbe consumato la Pasqua il martedì, perché il mercoledì era la Pasqua secondo questo calendario. Mentre nel calendario lunare la Pasqua avveniva, in quell’anno, di sabato e, dunque, la vigilia, la Parasceve, era venerdì.
Questo tipo di ricostruzione ha ricevuto delle critiche, ma certamente ha un grandissimo merito, che è quello di mostrare che le due tradizioni – quella sinottica e quella giovannea – non siano in contrasto tra di loro. Non sono due cronologie incompatibili. Ma soprattutto questo ci permette di comprendere qualche cosa di molto importante e cioè che la cronologia giovannea ha una sua validità – rifacendosi al calendario lunare-sacerdotale – perché ci dice che il Signore viene immolato sulla croce proprio nel giorno in cui al Tempio venivano sacrificati gli agnelli che poi dovevano servire per la Pasqua giudaica. Dunque, abbiamo questa particolare “coincidenza” (che non è una coincidenza...) e che è un fortissimo argomento di convenienza del perché il Signore abbia scelto, permesso in qualche modo il giorno della Parasceve secondo il calendario sacerdotale. Nell’altro calendario, non essendo collegato al Tempio, non venivano immolati gli agnelli al Tempio, evidentemente.
Ancora, sul tempo, c’è la domanda sull’opportunità dell’immolazione del Signore all’ora sesta. Che cos’è l’ora sesta? Perché è il momento dell’esaltazione del sole. Cioè, il sole arriva nel suo punto più alt:, a mezzogiorno raggiunge il suo zenit, e ciò corrisponde al momento in cui il Sole di giustizia, il Sole che è venuto ad illuminare quanti giacciono nelle tenebre, nell’ombra della morte, come cantiamo ogni giorno nel Benedictus, veniva esaltato, veniva elevato. Quindi abbiamo questa coincidenza tra l’elevazione del sole cosmico e l’elevazione del Sole eterno incarnato.
Ancora, perché nel mese di Nisan? E perché nel periodo prossimo all’equinozio di primavera? Che cos’è l’equinozio di primavera? È il periodo in cui il giorno inizia a prevalere sulla notte, cioè il bilanciamento tra le ore di buio e le ore diurne ritorna in qualche modo in parità e “riparte” la vittoria della luce sulle tenebre; che è quanto avviene nella passione di Gesù: la luce vince sulle tenebre e tuttavia non ancora in modo definitivo, come avverrà nella Parusia. Ma è appunto un modo incipiente, non tanto per il Signore quanto per noi, di questa vittoria.
Nell’art. 10, san Tommaso si occupa del luogo: perché Gerusalemme? E perché la crocifissione, pur avvenendo a Gerusalemme, non avviene all’interno della città ma al di fuori di essa? Ricordiamoci che il Golgota era collocato all’epoca (adesso chiaramente è all’interno della città, delle mura di Gerusalemme) appena al di fuori delle antiche mura. Ora, anzitutto perché, come dice san Tommaso nella risposta alla prima obiezione dell’art. 10, «Gerusalemme era il luogo prescelto da Dio per l’offerta dei sacrifici, i quali prefiguravano la passione di Cristo secondo le parole di san Paolo: “Ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5, 2)» (III, q. 46, a. 10, ad 1). Gerusalemme era la città del Tempio; e il Tempio era per eccellenza il luogo dei sacrifici. Dio stesso aveva indicato a Mosè l’altare dei sacrifici: anzitutto l’altare di bronzo esterno al Santo, e poi l’altare interno, che era l’altare dei profumi, degli incensi. Quindi, Gerusalemme era la città del sacrificio, dell’immolazione e anche del sacrificio di soave odore, che in Cristo si collegano. In questo senso c’era l’opportunità, la convenienza che questo sacrificio avvenisse proprio nella città sacrificale per eccellenza.
Ma ci sono anche altre ragioni che possiamo apprezzare proprio andando un po’ a quelle che erano le tradizioni, che ci fanno vedere come gli ebrei consideravano Gerusalemme. Anzitutto, perché Gerusalemme era il luogo dove bisognava salire tre volte l’anno per “vedere il Signore”: questa era la dizione usata, che poi letteralmente dovrebbe essere resa come “esseri visti dal Signore”; salire a Gerusalemme, andare al Tempio, porsi alla presenza di Dio, vedere il Signore ed essere visti da Lui.
Questo collegamento con la Passione ci dà una visione straordinaria: Dio viene visto proprio nel momento in cui la sua divinità sembra scomparire, eppure quello del Crocifisso è il volto di Dio in tutta la sua pienezza, in quanto svela il volto di Dio in tutta la sua infinita misericordia, tutta la sua dedizione per gli uomini e anche la sua potenza che scaturirà dalla croce per la salvezza degli uomini. C’è quindi anche l’essere visti dal Signore, cioè ricevere questo sguardo di misericordia, di perdono, di benevolenza, con cui Cristo ha guardato ogni uomo dalla croce, non solo chi era storicamente presente; la crocifissione del Signore quello che era l’anelito e anche il dovere di ogni israelita di salire a Gerusalemme per vedere il Signore ed essere visti da Lui.
Ancora, Gerusalemme, nella tradizione rabbinica, è l’immagine dell’Eden. Gerusalemme è una sorta di secondo paradiso terrestre da cui scaturiscono le acque della sorgente di Gihon, che sorge nel lato sud-est di Gerusalemme, e che è immagine in fondo di quello che poi sarà il fianco squarciato di Cristo. Quindi, Gerusalemme come nuovo Eden. Cristo muore infitto sull’albero della croce. Abbiamo visto l’altra volta il parallelo tra l’albero del giardino dell’Eden e l’albero della croce; qui abbiamo di nuovo questa tradizione che si salda, ma questa volta con l’idea di Gerusalemme come immagine della nuova creazione. Gerusalemme è solo immagine, perché la vera nuova creazione non può non nascere dal sacrificio di Cristo, che dunque doveva morire a Gerusalemme in questo senso.
Ancora, nella tradizione giudaica, Gerusalemme e in particolare il Tempio sono il luogo del sogno di Giacobbe, dove poi viene lasciata la pietra di Betel; storicamente non sembra che il posto sia Gerusalemme, ma a noi interessa soprattutto quello che era il pensiero ebraico su questo aspetto. Che cosa vede Giacobbe in questo sogno? Vede precisamente una scala che unisce cielo e terra e gli angeli di Dio che salgono e scendono lungo questa scala, che è il senso della riconciliazione tra cielo e terra avvenuta proprio con la croce del Signore.
Ma allora potremmo chiederci: perché fuori dalla città e non all’interno? Perché non al Tempio? San Tommaso, nella risposta alla seconda obiezione, ci dice: «Perché il vitello e il capro che erano offerti nel sacrificio solennissimo per l’espiazione di tutto il popolo venivano bruciati fuori dagli accampamenti» (III, q. 46, a. 10, ad 2). Qui il riferimento è al capitolo 16 del libro del Levitico, dove si spiegano i riti d’espiazione e in particolare del Giorno dell’Espiazione, Yom Kippur, quando venivano sacrificati due animali: un giovenco, per i peccati dei sacerdoti, e il cosiddetto capro espiatorio, per espiare appunto i peccati di tutto il popolo. Entrambi, sia il giovenco che il capro, dovevano essere portati, per comandamento divino, fuori dall’accampamento; i peccati di cui questi animali simbolicamente venivano caricati attraverso l’imposizione delle mani dei sacerdoti, dovevano essere espiati tramite la morte lontano dall’accampamento, a indicare proprio l’allontanamento del male. E qui abbiamo l’adempimento di Cristo che è il capro espiatorio, Colui che porta su di Sé i peccati degli uomini, del mondo, che espia questi peccati e li porta al di fuori della città, adempiendo così questo rito che era l’immagine, l’anticipazione del vero sacrificio del Signore.
L’art. 11 è l’ultimo che vediamo e riguarda la convenienza della presenza dei due ladroni. Il senso dei due ladroni lo possiamo così riassumere: il fatto che Cristo sia stato crocifisso in mezzo a due ladroni (come sono chiamati, ma erano in realtà due assassini), indica innanzitutto il fatto della croce come salvezza universale. Di nuovo ricordiamo il segno dei due popoli che vengono riconciliati – i giudei e i pagani – e che vengono riconciliati non solo tra loro, ma vengono riconciliati in Cristo e tramite Cristo. Ma questo riguarda anche la croce come giudizio, perché noi vediamo che di questi due ladroni uno viene salvato e l’altro no, a indicare quell’immagine che troviamo nel Vangelo di Matteo sul giudizio finale, nella separazione delle pecore dai capri. La croce come salvezza. E proprio perché la croce è salvezza è anche giudizio. Perché giudizio? Perché non è data un’altra ancora di salvezza se non la croce stessa: chi rifiuta la croce – quindi chiaramente chi rifiuta il Crocifisso, cioè il Signore – non può essere salvato. Chi invece lo accoglie, riconosce i propri peccati e lo accoglie come Salvatore, viene salvato. Dunque, anche qui vedete questa densità del segno reale, storico che indica qualche cosa che gli occhi materiali non vedono ma a cui la fede ci dà accesso.
Abbiamo concluso la quæstio 46. La prossima volta continuiamo con questi articoli che san Tommaso dedica alla Passione del Signore.
La Passione del Signore (II parte)
Altri elementi di convenienza legati alla Passione sono il luogo e il tempo in cui patì Gesù, nonché la sua morte tra i due ladroni. Salvezza e giudizio. Una questione dibattuta: quando il Signore mangiò la Pasqua? I due calendari allora in uso in Terra Santa.
La Passione del Signore – Il testo del video
I misteri della Passione di Gesù sono il cuore della storia di tutta l’umanità. Perché Dio ha scelto di redimerci attraverso la sofferenza del Figlio e in particolare la morte in croce? Vediamo, con S. Tommaso, le ragioni di convenienza.
Negare la Comunione sulla lingua è un abuso giuridico
Il divieto di mons. Forte di dare l’Eucaristia sulla lingua non è giuridicamente vincolante perché è contrario alle leggi superiori della Chiesa, dalla Memoriale Domini alla Redemptionis Sacramentum. È perciò il vescovo di Chieti a porsi in disobbedienza. Consigli per i fedeli.