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CELLA? NO: CAMERA DI PERNOTTAMENTO

La neolingua politicamente corretta entra in carcere

Ce lo chiede l'Europa. E ti pareva: il dipartimentio dell'amministrazione penitenziaria impone di chiamare la cella “camera di pernottamento”. Più altre parole modificate come piantone e secondino. Perché il mondo in carcere deve essere uguale a quello fuori. Ma non era un luogo di pena il penitenziario? 

Cronaca 12_04_2017
 

Un verso misconosciuto della famosa canzone folk siciliana Ciuri ciuri recita: «Tu dici ca lu càrzaru è galera, a mia mi pari ‘na villeggiatura». Traduco, anche se non ce n’è molto bisogno: «Tu dici che il carcere è galera, a me mi pare una villeggiatura». Le alate parole si affacciano automaticamente all’immaginazione nello scorrere la recente circolare del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) che introduce la neolingua nelle patrie galere.

Dice anche, senza parafrasare, che ce lo chiede l’Europa. E ti pareva. Così, per esempio, la cella diventa «camera di pernottamento». Più chic (ma allora perché non «zona notte»?). Segue tutta una serie articolata di cambio-parole in neolingua «per adeguarsi alle regole europee». In effetti eravamo in pensiero: una Europa che regola la curvatura delle banane e il diametro dei piselli, possibile che avesse lasciato fuori l’altra metà del cielo (quello a scacchi)?

Con tutta l’abbondanza di popolazione carceraria, tanto che a intervalli irregolari si deve varare l’ennesimo decreto svuota-carceri (e riempi-obitori), era giusto che si ponesse mano a quest’ennesimo regolamento. Che per i maligni è della serie: non riesco a risolvere il problema, allora lo chiamo in un altro modo.

A giudicare da certi ceffi che entrano ed escono dall’istituzione, non ce li vediamo intenti a ingentilire il loro linguaggio. Tenendo conto anche del fatto che metà della popolazione carceraria è costituita da extracomunitari e/o stranieri. Perciò, è quasi sicuro che la nuova normativa sia indirizzata più che altro a quelli del personale di custodia, che già da un pezzo non si possono più chiamare secondini (pare sia diventato offensivo, come, per un paragone, «negro» e «zingaro»).

Il quale personale, vediamo, che cosa ne pensa dei nuovi standard linguistici europeizzanti? L’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, su «L’Espresso» parla senza mezzi termini (e saltando a piè pari il politicamente corretto) di «un’Amministrazione ormai giunta alla frutta». Banane e piselli europei? No, noccioline.

Invece di «affrontare e risolvere i gravissimi problemi del personale di polizia penitenziaria e della popolazione detenuta nell’attuale e scadente sistema penitenziario italiano», si preoccupa di adeguare la terminologia carceraria a quella svedese.

Riassumiamo detti problemi: personale insufficiente, carceri che scoppiano, altre carceri non utilizzate, sistema penale spietato con certi reati e lassista con altri, eccetera. Ma l’Amministrazione non ha dubbi: si modifichi il linguaggio, perché «la vita all'interno del carcere deve essere il più possibile simile a quella esterna e questa assimilazione deve comprendere anche il lessico». Posta la premessa, in effetti, il resto è logico.

Ma ci si permetta una domanda ingenua: perché la vita all’interno del carcere deve essere il più possibile simile a quella esterna? Non era un «luogo di pena»? Non si chiamava «penitenziario» (da «penitenza»)? Il Codice non si chiama Penale? A questo punto, perché la riforma del linguaggio non comincia dalla testa? Perciò, le teste d’uovo europee si scervellino per sostituire questi nomi. Suggeriamo il primo: Codice (non più Penale ma) di Reinserimento Sociale. Per il resto rimando alla canzone Ciuri ciuri: non carcere né galera, bensì…