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IL DISSIDENTE RUSSO

La morte di Navalny, in carcere in Siberia. Una storia sovietica

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Alexei Navalny era considerato il principale oppositore politico di Vladimir Putin negli ultimi dieci anni. Dopo una lunga persecuzione e almeno un tentativo di avvelenamento, è morto in carcere. 

Esteri 17_02_2024
Omaggio a Navalny alla "Pietra delle Soloveckij" (La Presse)

Cambiano i confini, cambiano i regimi. Ma il sistema dei gulag non cambia mai, in Russia. La vicenda della persecuzione del dissidente russo Alexei Navalny, morto ieri, 16 febbraio, in un carcere dell’estremo Nord russo, sembra presa, pari pari, dalla storia sovietica.

Navalny era considerato il principale oppositore politico di Vladimir Putin negli ultimi dieci anni. I suoi inizi in politica erano stati ben poco promettenti: prima nel partito liberale Yabloko, poi espulso perché troppo nazionalista. Nelle proteste del 2011 e nel 2012, dove sia democratici che nazionalisti si erano uniti per cercare un’alternativa a Putin (rieletto presidente nel 2012 dopo un intervallo da premier), Navalny aveva iniziato a crearsi un seguito nell’opposizione. Ma è stato soprattutto dopo quell’esperienza che aveva lanciato la sua vera battaglia. Laureato in legge e in economia, circondato da esperti e professionisti della comunicazione e delle finanze pubbliche, aveva lanciato un canale YouTube con milioni di visualizzazioni, dove esponeva la corruzione del Cremlino, degli oligarchi e dello stesso Putin.

Dal 2012 al 2018, Navalny è stato oggetto di uno stillicidio di arresti, processi, detenzioni brevi e pene sospese. Nulla di determinante, ma abbastanza per tenerlo sempre sotto pressione e sporcarne la fedina penale. Nelle presidenziali del 2018 la magistratura gli ha impedito di candidarsi alla presidenza, contro Putin, proprio perché era stato in carcere. L’oppositore ha sempre denunciato una persecuzione politica e la Corte Europea dei Diritti Umani, nel 2019, gli ha dato ragione, affermando che le sue detenzioni, almeno fra il 2012 e il 2014, fossero politicamente motivate. Oltre alla persecuzione giudiziaria, si sono aggiunte le aggressioni. Nel 2016 e nel 2017 è stato picchiato e cosparso di disinfettante, la zelyonka, che col suo colore verde, difficilmente lavabile, serve per “marchiare” i traditori. Nel 2019, durante un altro breve periodo di detenzione, Navalny ha denunciato un primo tentativo di avvelenamento, mai confermato.

Ma il peggio doveva ancora venire. Dopo una campagna per boicottare il referendum per la riforma presidenziale (quella che garantirà a Putin, potenzialmente, di stare al potere ininterrottamente fino al 2036), Navalny si sente male nel volo di ritorno per Mosca. Grazie a un atterraggio d’emergenza all’aeroporto di Omsk, in Siberia, ricoverato d’urgenza, si salva per un pelo. Si sospetta da subito un avvelenamento. La moglie Yulia, sempre al suo fianco, scrive di suo pugno un appello a Putin, per ottenere cure sufficienti e al tempo stesso scrive al governo Merkel per ottenere aiuto dalla Germania e dall’Europa. Berlino risponde all’appello e un’organizzazione non governativa tedesca lo va a prelevare. Trasportato a Berlino, trascorre un mese in terapia intensiva. I periti tedeschi confermano quel che si sospettava: avvelenamento da gas nervino, il Novichok, spruzzato sulle mutande della vittima.

Man mano che riprende le forze, Navalny si mobilita di nuovo, denuncia il tentato omicidio, con un’inchiesta in cui telefona a funzionari dei servizi russi sotto falsa identità, fa anche nomi e ruoli dei suoi avvelenatori. Parrebbe l’inizio di una nuova militanza in esilio. Invece, sorprendendo tutti, Navalny decide di tornare in Russia, pur sapendo di andare incontro a condanna e persecuzione. La corte gli ordina di presentarsi e lui, nel gennaio del 2021, si presenta all’aeroporto di Mosca per farsi arrestare. Da quel momento in poi non sarebbe mai più uscito dalle galere russe.

Le condanne si susseguono una dietro l’altra: prima un mese di carcerazione preventiva, poi due anni e mezzo per violazione di libertà vigilata (perché era in Germania, in ospedale), poi, nel 2022, si aggiungono nove anni con la condanna di “appropriazione indebita”, infine, nel 2023, altri venti anni per reati gravissimi, quali “terrorismo”, “estremismo” e “apologia del nazismo”. La sua Fondazione contro la corruzione viene a sua volta condannata per “estremismo” nel 2021 e sciolta. Iniziano i processi anche per i suoi collaboratori.

In carcere, Navalny non ha mai smesso di combattere. Ha denunciato le condizioni, da carcere sovietico, in cui era detenuto: le guardie lo svegliavano ogni ora per impedirgli di dormire e lo filmavano continuamente perché lo ritenevano a “rischio di fuga”. Reduce dalla lunga degenza in Germania, non ha mai ricevuto cure adeguate. L’organizzazione carceraria lo ha spesso rinchiuso in celle di rigore, oppure assieme ad altri detenuti malati, per minare la sua salute. Per protesta, Navalny ha intrapreso più volte lo sciopero della fame e ha denunciato le carceri in cui era rinchiuso per 89 volte. Ma le sue condizioni sono sempre peggiorate. Nel 2022, da Mosca è stato trasferito in un carcere di massima sicurezza nella regione di Vladimir, nella Russia occidentale. Nell’aprile del 2023, i suoi legali hanno denunciato anche un altro tentativo di avvelenamento.

Nonostante tutto, il dissidente ha continuato a far sentire la sua voce. Usando i social network quando poteva, affidando i suoi messaggi agli avvocati (tre dei quali sono a loro volta in carcere e due in esilio, con una condanna in contumacia), ha continuato a dire ai suoi sostenitori di non aver paura, di non arrendersi, di continuare a combattere. Quando Putin ha annunciato la sua nuova candidatura per le elezioni del 2024, in dicembre, Navalny ha ricominciato a organizzare l’opposizione, con una protesta ai seggi. Ma deve essere stata l’ultima goccia: per tre settimane è letteralmente scomparso. Poi solo alla fine di dicembre è stato rintracciato, dai suoi legali, nella colonia penale numero 3, detta Lupo Polare, nella regione dell’estremo Nord di Yamalo-Nenets. “Sono il vostro nuovo Babbo Natale” aveva detto in uno dei suoi ultimi video, dopo Natale, quando era riemerso, dimostrando di non aver perso il senso dell’umorismo nemmeno in quelle condizioni estreme. Ma da quel carcere non ne è uscito vivo. Non sono ancora accertate le cause del decesso, ma un suo collaboratore, Ivan Zhdanov, ha dichiarato che in quella struttura carceraria polare “basta una normale influenza per lasciarci la pelle”.

Sembra dunque una storia sovietica. E anche i sostenitori di Navalny, quelli che hanno avuto il coraggio di sfidare il freddo e la polizia (che anche ieri ha eseguito diversi arresti), gli hanno reso omaggio presso la “Pietra delle Soloveckij”, il monumento alle vittime del gulag, in Piazza della Lubjanka. Quella da cui “si vede direttamente la Siberia”, come si diceva in epoca sovietica.