La guerra civile è davvero finita? Il dilemma del Libano diviso
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Il 13 aprile 1975 scoppiò la guerra civile libanese, protrattasi per 15 anni. Ma non tutti nel Paese dei Cedri concordano sulla sua effettiva fine e il dibattito si è riacceso dopo il rilascio di Georges Abdallah. Le opinioni di Fares Souaid e Rindala Jabbour.

Il 25 luglio è rientrato a Beirut Georges Abdallah, militante libanese pro Palestina rilasciato dopo aver scontato 41 anni di detenzione nel carcere francese di Lannemezan. Proveniente da una famiglia cristiana del nord del Libano, cofondatore delle Lebanese Armed Revolutionary Factions, una formazione armata di stampo marxista allineata alla causa palestinese e panaraba, Abdallah fu condannato per aver partecipato nel 1982 agli omicidi dell'ufficiale dell'esercito americano Charles Robert Ray e del diplomatico israeliano Yacov Barsimantov. Mentre ha sempre negato il suo coinvolgimento negli omicidi, Abdallah non ha mai preso le distanze dall'ideologia del movimento che ha contribuito a fondare, cosa che gli è costata una detenzione «sproporzionata», secondo le parole della Corte di appello che ne ha decretato il rilascio il 17 luglio scorso.
Tra le personalità che hanno commentato il rientro di Abdallah in Libano, uno studioso di storia, che ha preferito rimanere anonimo, ha dichiarato a France 24: «Abdallah è un eroe per alcuni, per altri no, e per molti appartiene a un'epoca che non hanno vissuto», cioè l'epoca della guerra civile, la terribile stagione che ha insanguinato il Libano tra il 1975 e il 1990. A questo proposito Charbel Jabbour, portavoce delle Forze Libanesi, partito cristiano di destra agli antipodi rispetto alle posizioni di Abdallah, ha dichiarato sempre a France 24 che il rilascio del detenuto contribuisce a chiudere il capitolo della guerra civile: «La guerra è finita, definitivamente». Ma è proprio così? A giudicare dalle tensioni scoppiate all'aeroporto di Beirut all'arrivo di Abdallah non sembra che le cose stiano così.
Nel 2025 ricorrono cinquant'anni dall'inizio delle ostilità: com'è noto, il 13 aprile 1975, in quella che nella memoria collettiva libanese è chiamata la Black Sunday, scontri a Beirut tra miliziani cristiani e fedayyin palestinesi affiliati all'OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) dettero inizio a quindici anni di violenze e massacri interconfessionali terminati con un patto di Riconciliazione Nazionale, detto Accordo di Taif (1989). Se la data dello scoppio della guerra è certa, seppur con narrazioni profondamente divergenti a seconda delle parti in causa, perché non c'è un giorno che sancisce, nemmeno a livello simbolico, la fine del conflitto?
Lo chiediamo a Fares Souaid, cristiano maronita originario di Qartaba, sulle montagne di Jbeil. Medico, uomo politico e attivista, Souaid è stato eletto in Parlamento per le Forze Libanesi nel 2000 e si occupa di dialogo e collaborazione tra le fedi, in cui crede fermamente: ha contribuito alla visita epocale del patriarca maronita Béchara Boutros Raï in Arabia Saudita, nel 2017.
Dottor Fares, è veramente finita la guerra civile in Libano?
Per rispondere dobbiamo prima capire perché la guerra è iniziata, e per farlo occorre risalire alla pesante sconfitta subita dagli eserciti di Egitto, Siria e Giordania da parte di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Al termine del conflitto Israele aveva sottratto territorio ai tre Paesi: il Sinai e Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. Il mondo arabo aveva subito uno smacco indicibile, a cui si decise di rispondere cambiando strategia: dalla guerra aperta – evidentemente fallimentare – si stabilì di passare a una guerra di resistenza. Il Libano, che non aveva partecipato al conflitto dei Sei Giorni, fu scelto dall'OLP di Arafat come base di partenza per tale operazione. La presenza di guerriglieri palestinesi nei campi profughi del sud del Libano fu dunque legalizzata, le loro attività legittimate, ma presto l'esercito libanese non riuscì più a contenere i miliziani palestinesi nelle aree di loro pertinenza. Dalla degenerazione di questo stato di cose si arrivò agli scontri del 13 aprile 1975 e a tutto quello che ne seguì. Il Libano ha una lunga storia di convivenza tra cristiani e musulmani, e ciò che ha fatto deflagrare l'equilibrio tra confessioni è stato un corpo estraneo al tessuto sociale del Paese.
Questa deflagrazione ha cambiato le cose in modo irreversibile? Si può dire che la guerra sia finita?
Ci sono due scuole di pensiero: secondo la prima in Libano viviamo da allora una permanente guerra civile “fredda”, che ogni tanto si riscalda dando luogo ad episodi di violenza; per la seconda, che è anche il mio modo di vedere, qui in Libano viviamo una convivenza pacifica tra cristiani e musulmani che sporadicamente dà luogo a scontri. Personalmente – e questo è solo il mio parere, non tutti i cristiani in Libano la pensano così – sono convinto che sia interesse dei libanesi costruire il Paese assieme, cristiani e musulmani. Nella mia regione di origine, ad esempio, cristiani e musulmani sciiti sono una famiglia, e tutto il Paese conosce l'amalgama confessionale. Del resto, durante la guerra civile abbiamo fatto esperienza di vivere da soli, in zone ben delimitate, inaccessibili alle altre comunità, eppure questa divisione non è servita ad evitare la violenza, ma anzi ad esasperarla. Con l'accordo di Taif, che di fatto ha messo fine alla guerra, è stato stipulato un nuovo contratto politico che sarebbe una buona base di ripartenza per tutti, se ogni volta il Libano non fosse investito da qualcosa, o qualcuno.
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Rivolgiamo la stessa domanda a Rindala Jabbour, presidente del Sindacato dei lavoratori dell'audiovisivo, reporter e giornalista della stazione radio Sawt El Mada. Jabbour insegna Media e Comunicazione in diverse università libanesi, è impegnata in politica in seno al Free Patriotic Movement e nel volontariato presso il Centro per i cristiani d'Oriente, associazione che si occupa dei cristiani in Libano, Siria, Iraq ed Egitto.
Dottoressa Jabbour, la guerra civile è veramente finita?
No: la guerra vive ancora dentro di noi. In Libano non è mai stata fatta una “terapia collettiva” per sanare le ferite del conflitto. Nel corso dei miei studi universitari ho avuto modo di trascorrere un periodo in Bosnia, dove ho potuto constatare che è stato fatto un grande lavoro di riconciliazione dopo la guerra, pur con tutte le difficoltà del caso: quella in Bosnia Erzegovina è stata una vicenda atroce. La guerra in Libano è finita cinque anni prima, eppure non è stato fatto nessun tentativo del genere, solo qualche film sull'argomento.
Georges Abdallah, scarcerato in questi giorni, è un cristiano che negli anni della guerra sposò la causa palestinese. Non è un paradosso, dato che miliziani cristiani e guerriglieri palestinesi combattevano aspramente su due fronti opposti?
Noi cristiani siamo liberi, e la nostra libertà si riflette necessariamente anche in ambito politico. Nell'islam religione e politica sono strettamente interconnesse, nel cristianesimo non è così. Qui in Libano noi cristiani non abbiamo un'appartenenza politica comune, ma collaboriamo nella diversità.
In Libano si dice che solo il cibo e la cantante Fayrouz (1934/1935), icona del Paese dei Cedri, abbiano la capacità di mettere d'accordo tutti, cristiani e musulmani. Ahimè, il 26 luglio è venuto a mancare Ziad Rahbani (1956-2025), musicista, compositore, regista, drammaturgo e poeta libanese, figlio del grande musicista Assi (1923-1986) e autore di alcune delle più note canzoni della madre Fayrouz. Rahbani ha legato il suo nome a motivi indimenticabili che hanno abitato il paesaggio sonoro libanese degli ultimi cinquant'anni, senza sottrarsi al confronto con le vicende della guerra civile, anzi rileggendole in senso critico e satirico.