Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi Anna e Gioacchino a cura di Ermes Dovico
La lezione

La fine di Freeda Media, il capitalismo woke non regge

Ascolta la versione audio dell'articolo

Il fallimento dell’azienda fondata nel 2016 rappresenta la fine di un’intera era dei media digitali: quella del “femminismo commerciale” e dei contenuti progressisti woke come strumenti di marketing di massa. Dietro il collasso di Freeda, lo smascheramento della sua facciata progressista.

Attualità 24_07_2025

Il fallimento di Freeda Media nel giugno 2025, dopo aver bruciato 30 milioni di dollari di finanziamenti e accumulato 20 milioni di euro di debiti, segna molto più di un semplice collasso aziendale. Rappresenta la fine di un’intera era dei media digitali: quella del “femminismo commerciale” e dei contenuti progressisti woke come strumenti di marketing di massa.

Fondata nel 2016 da Gianluigi Casole e Andrea Scotti Calderini, Freeda sembrava aver trovato la formula magica: contenuti di empowerment femminile che risuonavano nelle stanze virtuali di 11 milioni di follower in tutto il mondo; partnership con Nike, Gucci e Dior; una valutazione che attirava investitori di primo piano. Il 94% del loro pubblico erano donne tra i 18 e i 34 anni, un target demografico preziosissimo per gli inserzionisti.

Ma dietro il successo apparente si nascondeva una contraddizione fatale. Freeda predicava femminismo mentre era finanziata dalla famiglia Berlusconi, l’antitesi, almeno simbolica, della libertà femminile in Italia. Quando Dinamo Press rivelò nel 2017 i legami con Luigi Berlusconi e il family office H14, iniziò un lento ma inesorabile crollo di credibilità. La mammona seduce sempre. Tuttavia, la vera causa del fallimento di Freeda non è stata la crisi del mercato pubblicitario digitale, ma lo smascheramento sistematico del loro “pink washing”: anche alcune sigle del femminismo italiane, dalla storica Libreria delle donne di Milano agli attivisti di base, hanno demolito pezzo per pezzo la facciata progressista dell’azienda, denunciando il loro «sedicente femminismo rassicurante e mai controverso». Marco Crepaldi ha catalizzato il malcontento su YouTube con video virali come “Tutta l’ipocrisia di Freeda”, raggiungendo milioni di visualizzazioni e creando un movimento organico di contestazione. Anche alcune follower di Freeda hanno iniziato a creare profili Instagram dedicati esclusivamente a criticare la piattaforma.

La strategia di commercializzare il femminismo si è rivelata un boomerang: più Freeda cresceva commercialmente, meno appariva autentica. Le organizzazioni femministe consolidate hanno rifiutato la sua legittimità, privandola del sostegno di base essenziale per qualsiasi movimento sociale. I problemi ideologici si sono tradotti rapidamente in perdite finanziarie concrete. Nel 2024, Freeda ha perso il 30% dei ricavi (scendendo da 35 a 22,5 milioni di euro) quando clienti strategici si sono ritirati. Le preoccupazioni sulla sicurezza del brand hanno reso sempre più difficile mantenere partnership con grandi marchi, mentre la struttura operativa con più di 200 dipendenti richiedeva una crescita costante dei ricavi. Il paradosso era evidente: per sopravvivere finanziariamente, Freeda doveva intensificare le strategie commerciali che però la rendevano meno credibile presso il suo pubblico target. Quando l’autenticità diventa il tuo brand, il marketing non può essere la tua strategia di mercato.

Anche internamente, le recensioni di Glassdoor rivelano la disconnessione tra valori proclamati e pratiche aziendali: «Non sono progressisti come fanno credere i loro contenuti», scriveva un ex dipendente. Se il contenuto è il prodotto, non puoi allontanartene. Dal pulpito del perbenismo, Freeda si è messa a razzolare nell’aia fangosa del capitalismo.

Il fallimento di Freeda si inserisce in un modello più ampio di crisi dei media digitali con una più o meno dichiarata propensione all’etica raffazzonata della sinistra progressista. Vice Media, valutata 5,7 miliardi nel 2017, è stata venduta per 400 milioni nel 2023. BuzzFeed News ha chiuso completamente. The Messenger ha bruciato 50 milioni in meno di un anno.

D’altronde, costruire un business interamente su piattaforme che non controlli crea una vulnerabilità esistenziale ai cambiamenti esterni. Mentre le piattaforme social media offrivano opportunità di utenti raggiunti e coinvolti senza precedenti, Freeda si è trovata sempre più dipendente da canali che non poteva controllare. È diventata schiava dell’algoritmo che la premiava. Ma questo fallimento non è solo sintomo di una crisi generale del mercato pubblicitario, ma rivela qualcosa di più profondo: il crescente scetticismo del pubblico verso la commercializzazione di cause sociali. Una parte significativa del femminismo italiano ha preso posizioni sempre più critiche verso la logica capitalista, rendendo modelli come quello di Freeda obsoleti.

Freeda rappresenta il fallimento di un’intera generazione di aziende che ha cercato di monetizzare l’attivismo sociale. La loro caduta coincide con il crescente successo di creatori di contenuti indipendenti e piattaforme che rifiutano esplicitamente la politicizzazione dei contenuti. Il pubblico, soprattutto quello giovane, ha sviluppato anticorpi contro il purpose marketing e l’attivismo aziendale. La generazione Z, cresciuta con i social media, punisce spietatamente l’ipocrisia. Il caso Freeda dimostra che l’era dei contenuti progressisti come strategia di marketing di massa sta tramontando. Le aziende che hanno costruito il loro brand sull’attivismo woke si trovano ora in una posizione precaria: sono troppo politicizzate per il mainstream ma troppo commerciali per gli attivisti autentici.

La lezione di Freeda è chiara: in un’epoca di crescente polarizzazione e scetticismo, l’autenticità non può essere simulata e i valori non possono essere semplicemente comprati e venduti come prodotti. Il capitalismo woke ha gettato la sua maschera e la sua ipocrisia ha scandalizzato un’intera generazione di fruitori di contenuti.