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FINANZIARIA

La crisi economica e don Ferrante

Il problema chiave è la sfiducia dei mercati nella possibilità dell'Italia di ripagare il debito contratto, perché da 15 anni l'economia stagna.

Attualità 08_09_2011
fabbrica

“Non mi interessano i mercati finanziari internazionali, il solo mercato che mi interessa è quello sotto casa, quella della frutta e verdura”. Come dire: la crisi globale lasciamola ai grandi speculatori, noi badiamo alle piccole cose del nostro cortile. Lo hanno detto illustri uomini di partito, lo pensano in fondo moltissime persone che guardano sconcertate a questo affannarsi della politica per contrastare una crisi che tutti dicono essere globale e quindi contro la quale dovremmo poter fare ben poco.

Eppure mai come questa volta la crisi finanziaria appare grave e soprattutto tale da mettere a rischio le certezze quotidiane di ciascuno di noi nei diversi aspetti in cui si articola la nostra esperienza: quella di cittadino, di consumatore, di risparmiatore, di lavoratore. Mai come questa volta i sommovimenti dei mercati internazionali possono causare cambiamenti anche drastici nei nostri modi di vita e delle nostre speranze sul futuro nostro e dei nostri figli.


Si è detto, giustamente, che la crisi attuale è una crisi determinata dal rischio che alcuni paesi non riescano a ripagare i debiti che hanno contratto negli anni passati. Il primo segnale d’allarme è venuto dalla Grecia, ma poi i rischi si sono estesi prima al Portogallo e all’Irlanda e poi alla Spagna e all’Italia. Il nostro paese ne è stato coinvolto per due ragioni: ha il debito pubblico proporzionalmente più alto di tutti gli altri paesi europei (tranne la Grecia) e da almeno quindici anni ha un’economia in sostanziale stagnazione, con una crescita molto limitata e comunque più lenta di quella di tutti gli altri paesi.


Il debito in sé non è il problema principale, ma il debito deve essere sostenibile cioè il paese deve saper creare le risorse sufficienti almeno per pagare gli interessi e quindi convincere i sottoscrittori a rinnovare periodicamente i titoli in scadenza. Il problema principale è quindi quello della crescita e su questo fronte, come detto, l’Italia non ha dato buona prova negli ultimi anni.


Si è quindi diffusa una certa sfiducia a livello internazionale anche perché non si può dimenticare che circa la metà dei 1.900 miliardi di euro del debito italiano sono posseduti da risparmiatori, banche, società finanziarie estere che non hanno altre ragioni, se non quelle della sicurezza e del rendimento, per acquistare titoli italiani. E se diminuisce la sicurezza l’effetto immediato è quello di far salire i rendimenti. E’ così che nelle scorse settimane la differenza tra gli interessi (quella che i tecnici chiamano spread) su un titolo tedesco, considerato il più affidabile, e un titolo italiano è arrivata vicino al 4%. In pratica se la Germania per finanziare il rinnovo del proprio debito pubblico può vendere sul mercato titoli con un rendimento del 2%, l’Italia riesce a collocare analoghi titoli solo se garantisce un rendimento del 6%.

L’Italia ha pagato lo scorso anno circa 70 miliardi di interessi sul proprio debito ad un interesse medio di poco superiore al 3%. Se l’aumento dei tassi si confermasse nel tempo l’onere per le finanze pubbliche diventerebbe insostenibile.

Ecco perché i mercati internazionali influenzano direttamente la nostra vita quotidiana: perché se lo Stato deve spendere sempre di più per sostenere il debito deve spendere sempre di meno per i servizi che rende ai cittadini (e deve aumentare ancora di più le tasse). E quindi ci saranno meno soldi per la sanità, meno soldi per le pensioni, meno soldi per l’istruzione e la ricerca, meno soldi disponibili per le spese personali dato l’aumento dell’imposizione fiscale.


Ma c’è un’altra domanda a cui rispondere. Se la crisi è globale perché dobbiamo preoccuparci noi? Dato che l’Italia è parte della globalità ed è tra le grandi potenze economiche la crisi globale è determinata, almeno in parte, anche dalle difficoltà italiane, dalla realtà di un paese che non cresce, dall’incapacità dei Governi di trovare alternative al taglio delle spese sociali e all’aumento delle tasse.

Quali alternative? Ridurre le spese improduttive (per esempio abolire le province), vendere il patrimonio pubblico (ci sono centinaia di caserme inutilizzate nei centri storici delle città), privatizzare tutto quello che può non essere gestito dallo Stato (per esempio la Rai, le Poste, l’Eni), tagliare i centri di spesa della politica (dimezzare il numero dei parlamentari, accorpare i piccoli comuni). Tutte scelte che non influirebbero minimamente nella qualità della vita dei cittadini e contribuirebbero a ridurre il debito e non solo ad aiutare il pagamento dei vecchi interessi.


Qualcosa indubbiamente si è fatto, ma poco e molto timidamente. E purtroppo anche nella direzione sbagliata. Perché si sono ridotti i trasferimenti agli enti locali e questo avrà effetti negativi sulle spese per l’assistenza e i trasporti pubblici. Perché con l’Iva si sono aumentate le tasse sui consumi (con una manovra che sarebbe stata corretta se avesse avuto come contropartita una riduzione delle tasse sui redditi personali e sulle imprese). Perché non si è attuato praticamente alcun taglio ai costi della politica e non si è offerta nessuna spinta al miglioramento della competitività delle aziende.  
 

Ecco perché la crisi non può che interessare ciascuno di noi. Perché i debiti prima o poi si pagano e non ci si può illudere pensando semplicemente che “ha da passà a nuttata”. Altrimenti si rischia di fare la fine di don Ferrante nei Promessi sposi : dopo aver dimostrato che la peste non esisteva perché non era né sostanza, né accidente,… morì tranquillamente di peste dando la colpa alla “fatale congiunzione di Saturno con Giove”.