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Ora di dottrina / 163 – Il supplemento

La Comunione sulla mano e la visione distorta della Tradizione

La Chiesa, specie in ambito liturgico, ha avuto modo di mettere in guardia da due visioni distorte della Tradizione, entrambe componenti del “progressismo”: l’archeologismo e la smania di cambiare. La Comunione sulla mano è figlia proprio di una deviazione archeologista. Spieghiamo perché.

Catechismo 18_05_2025

Si è visto come l’attuale modalità di ricezione della Comunione sulla mano – particola posata sulla mano sinistra, sorretta dalla destra, e utilizzo delle dita della mano destra per portare la particola alla bocca – non trovi precedenti nella storia della Chiesa. A segnare una novità è anche l’assenza di un gesto, ossia l’inchino reverenziale, che diveniva obbligatorio per il fatto che il fedele doveva chinarsi per assumere l’Eucaristia direttamente dal palmo della mano. Ancora più evidente è la preoccupazione dei Padri della Chiesa affinché nessuna briciola del Pane eucaristico andasse perduta, apprensione che non sembra costituire una priorità per molti dei nostri pastori.

Tre elementi che permettono di capire la logica patologica sottesa a molte delle riforme liturgiche post-conciliari (tra cui quella della Comunione sulla mano): una comprensione puramente materiale della Tradizione. L’affermazione potrà sorprendere, perché una certa vulgata vorrebbe che siano proprio i non meglio specificati “tradizionalisti”, più di recente battezzati anche come “indietristi”, ad avere una concezione fissista e stantia della Tradizione. In realtà, le cose non sono così semplici.

La Chiesa ha avuto modo di mettere in guardia da due visioni distorte della Tradizione, particolarmente in ambito liturgico. La prima è il cosiddetto archeologismo, che Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei, definiva «eccessivo ed insano». Gli usi liturgici dei primi secoli della Chiesa sono senza dubbio da venerare, così come è di grande importanza conoscere quei riti, apprezzarli, immergersi in essi per ritrovarne ogni volta lo spirito; d’altra parte, però, il criterio dell’antichità non è di per sé garanzia di trovarsi davanti al meglio. Bisogna infatti considerare che lo Spirito Santo non ha limitato la sua azione ai soli primi secoli della Chiesa. Scriveva Pio XII: «Come, difatti, nessun cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze». Come si può vedere, il rifiuto dell’approccio archeologista si estende ai diversi domini della vita della Chiesa e non solo alla liturgia. Non si può pretendere di tagliare un albero con lo scopo di farlo ritornare alle dimensioni di quando era un piccolo arbusto.

La seconda insidia viene dalla smania di innovare, cambiare, modificare. Pio XII stigmatizzava «il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti». Questo testo è particolarmente prezioso, perché descrive come espressione della stessa smania sia l’introduzione di nuove consuetudini sia il ripristino di riti antichi non più in uso. L’archeologismo rivela così di essere una componente del “progressismo”, una sua necessaria copertura.

Quanto ciò sia vero, lo possiamo vedere con grande chiarezza proprio nell’attuale rito della Comunione sulla mano. Nei suoi sostenitori, si ritrova un’evidente deviazione archeologista, che va ad ispirarsi ad un rito caduto in disuso da oltre un millennio, unita all’introduzione di novità che non hanno alcun precedente. Questa operazione rivela il senso di quella logica deviata di cui parlavamo all’inizio: l’antichità viene strumentalizzata in funzione di una posizione del tutto nuova, rivelando così una concezione meramente materiale della Tradizione, le cui componenti possono essere liberamente utilizzate per costruire un nuovo edificio.

L’introduzione, prima come abuso e poi come indulto, della nuova versione della Comunione sulla mano si rivela così come il tradimento della Chiesa antica. L’affermazione è forte e richiede una spiegazione. La mera similitudine di due riti che prevedono che il ministro ponga l’Eucaristia sul palmo della mano non deve fuorviare; sotto questo punto di vista, sembrerebbe che la prassi antica, quasi inevitabile, dal momento che il pane utilizzato non era azzimo e non aveva la forma delle nostre particole, sia più vicina alla Comunione sulla mano “nostrana”. Ma il fatto che, in realtà, fosse accolta non senza preoccupazioni, come si è visto, per la frequente dispersione di frammenti, è stata invece obliata. E persino contraddetta. Per due ragioni: primo, perché la nuova modalità prevede che l’Ostia consacrata venga toccata per due volte dal fedele e da entrambe le mani, favorendo non solo una maggiore dispersione di frammenti, rispetto alla prassi antica, ma persino la possibilità di trattenere l’Eucaristia, per poi profanarla; secondo, perché questa modalità, introdotta tramite un indulto, risulta peggiorativa rispetto al modo universale in uso nella Chiesa latina da circa 1500 anni. Il che vuol dire, senza troppi giri di parole, che mentre i Padri cercavano di limitare la possibile dispersione di frammenti rispetto ad un rito in uso, i promotori della nuova versione hanno fatto esattamente il contrario, introducendo un cambiamento rispetto ad un rito – quello della Comunione sulla lingua – che praticamente, in perfetta sintonia con il desiderio dei Padri, aveva azzerato questo rischio: un cambiamento – quello appunto della Comunione sulla mano – che non solo pone nuovamente i problemi dei primi secoli, ma che vi ha apportato modifiche peggiorative.

La forma antica, come vedremo, verrà abbandonata in favore di un nuovo rito più conveniente – e mai messo in discussione per quindici secoli –, perché più conforme alle esigenze della realtà sacramentale. La Comunione sulla lingua è dunque esempio cristallino di una vera comprensione della Tradizione e di quelle riforme che da questa comprensione scaturiscono, non per ideologie che si fanno strada tramite abusi, poi in qualche modo “condonati”, ma per un naturale sviluppo che nasce da una maggiore consapevolezza teologica e da una più adeguata traduzione disciplinare. Per questo possiamo tranquillamente affermare che la Comunione sulla lingua risulta essere l’autentico sviluppo delle forme rituali antiche, mentre quella attuale costituisce una brusca virata peggiorativa, che tradisce sia la modalità antica che quella universale e secolare della Comunione sulla lingua.



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