Israele, un milione di persone in piazza contro Netanyahu
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Ieri oltre un milione di cittadini sono scesi in piazza in tutto Israele per chiedere la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Ma per il primo ministro queste proteste favoriscono un nuovo possibile 7 ottobre. Gli aiuti e l’esempio del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini.

Erano oltre un milione in tutto Israele i cittadini scesi in piazza, ieri, per chiedere la scarcerazione degli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, dopo 680 giorni di detenzione. Provenivano da molte località israeliane. Hanno occupato le piazze delle principali città, chiedendo la cessazione delle ostilità e le dimissioni del primo ministro Netanyahu. «Una giornata per salvare delle vite umane», «Basta inganni, riportali a casa»: queste le parole d’ordine della manifestazione, organizzata dal Forum delle famiglie degli ostaggi. Si sono svolte proteste a Gerusalemme, Haifa, Rehovot e in altre grandi città; contrarietà alla politica di Netanyahu è stata espressa anche nei centri più piccoli, dove le manifestazioni hanno causato problemi alla circolazione. Ai crocicchi delle strade sono stati accesi dei falò e distribuiti dei nastrini gialli ai passanti. Anche le aziende, le università e le municipalità hanno aderito alle manifestazioni. Interrotto il servizio ferroviario.
Per tutta la giornata di ieri, i parlamentari dell’opposizione hanno rivolto appelli ai cittadini ad unirsi alla manifestazione. «Non c'è un solo israeliano che non voglia che gli ostaggi tornino a casa», ha detto il presidente d’Israele, Isaac Herzog, parlando nella piazza degli ostaggi di Tel Aviv. «Scioperiamo oggi. Questa non è una provocazione, non fa parte di una disputa politica, non è l'opposizione. Scioperiamo per solidarietà. Scioperiamo perché le famiglie lo hanno chiesto, e questa è una ragione sufficiente», ha sottolineato il leader dell'opposizione e presidente di Yesh Atid, Yair Lapid. «Non c'è sciopero più giustificato. Non c'è protesta più necessaria. Non c'è più tempo, faremo di tutto per riportarli indietro ora! Unitevi a noi per tutto il giorno nelle proteste, nello sciopero e nei disordini», ha pubblicato sui social il presidente dei democratici, Yair Golan.
A Tel Aviv, i manifestanti si sono dati appuntamento di fronte al Comando generale delle Forze Armate di Kirya, reclamando la fine della guerra e il ritorno a casa di tutti gli ostaggi, sia vivi che morti. A Gerusalemme, i dimostranti, che bloccavano la galleria che immette sull'autostrada 16, sono stati colpiti dai getti di un cannone ad acqua della polizia che tentava di ripristinare la viabilità. Numerosi i cittadini israeliani arrestati dalle forze di sicurezza. Ma ci sono stati anche momenti di tensione: un camionista, dopo essere sceso dal proprio mezzo, nei pressi dell’incrocio per Ra’anana, città a nord della capitale, ha preso a pugni un manifestante, colpendolo violentemente sul volto. A Kfar Saba, sempre nei dintorni di Tel Aviv, un’automobilista rimasta bloccata nel traffico, è scesa dalla sua auto e ha spruzzato dello spray al peperoncino sulle persone che si trovavano nelle vicinanze.
Dura la reazione del primo ministro: «Coloro che oggi chiedono di porre fine alla guerra, non solo stanno ritardando il ritorno dei nostri ostaggi, ma stanno anche garantendo che gli orrori del 7 ottobre si ripetano, costringendoci ad una guerra senza fine».
Mentre le proteste erano in corso, i piloti dell’aeronautica israeliana hanno bombardato l’ospedale di al-Ahli di Gaza City, uccidendo sette persone; contemporaneamente, le forze di terra portavano avanti il piano del capo del governo, nonostante le critiche del ministro della Difesa, Israel Katz, per l’occupazione definitiva della città e l’evacuazione, con la forza, degli abitanti. Questi nuovi profughi verranno concentrati nella cosiddetta “zona umanitaria”, nei pressi di Rafah. Piano che, secondo i familiari degli ostaggi e alcuni funzionari della sicurezza, metterà ulteriormente in pericolo gli ostaggi rimasti ancora in vita. Il conflitto ha già prodotto 61.827 morti e 155.275 feriti, secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Salute di Gaza. Si calcola che 1.139 persone siano state ammazzate in Israele durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e più di 200 siano state fatte prigioniere.
In queste ultime ore, pare che il gruppo di Hamas sia disposto ad ammorbidire la sua posizione e a rinunciare alle rivendicazioni avanzate lo scorso mese di luglio e che hanno portato al fallimento delle trattative. A questa nuova disponibilità di Hamas per un’intesa per il cessate il fuoco e al rilascio graduale degli ostaggi, l'ufficio del primo ministro Netanyahu ha risposto con una dichiarazione nella quale si insiste per un accordo complessivo che includa il rilascio immediato di tutti gli ostaggi e il rispetto di tutte le condizioni stabilite da Israele. «Israele, infatti, per porre fine alla guerra, accetterà un accordo che prevede il rilascio immediato di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas, la smilitarizzazione della Striscia di Gaza, il controllo da parte dello Stato ebraico del perimetro di Gaza e l'istituzione di un governo non affiliato né ad Hamas, né all'Autorità Nazionale Palestinese», si legge nella dichiarazione.
Mentre a Gaza la guerra prosegue provocando morte e distruzione – oltre quaranta sono i morti di ieri, di cui almeno undici per malnutrizione – dopo Francia, Regno Unito e Canada, altri quattordici Paesi hanno annunciato di voler riconoscere lo Stato della Palestina. Il ministro degli Esteri francese, Jean Noel Barrot, ha chiesto di bloccare l’attività di Gaza Humanitarian Foundation, l’organizzazione voluta da Stati Uniti e Israele con lo scopo di distribuire gli aiuti umanitari nella Striscia, ma che in questi ultimi mesi ha provocato un bagno di sangue. «Sarebbero 1.760 i palestinesi che sono stati uccisi dalla fine dello scorso mese di maggio nella Striscia di Gaza, mentre cercavano gli aiuti umanitari», ha reso noto, venerdì scorso, l'Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani in territorio palestinese.
«Certi enti nazionali o internazionali mandano gli aiuti, con camion o talvolta lanciandoli dagli aerei. Ma accade che i lanci e la distribuzione non siano sicuri, anzi capita che provochino danni e vittime, senza considerare che a volte si fanno queste operazioni per convenienza politica, per propaganda o per... soldi», ha dichiarato il vescovo ausiliare emerito di Gerusalemme, mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, che ha aggiunto: «L'assurdo di questa situazione è vedere file infinite di bambini e di donne che, tra le macerie, aspettano anche per giorni, con una ciotola in mano, di ricevere gli aiuti e vengono uccisi. Senza peccare d’immodestia, ma con umiltà e gratitudine, dobbiamo riconoscere che il Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, nel suo piccolo, è l'unico tra gli enti non governativi che fa arrivare diversi aiuti a molti profughi. Ogni volta, infatti, che pervengono gli aiuti, per lo più derrate alimentari e medicinali, vengono predisposti i mezzi per il trasporto, oggetto di severi controlli, ma dopo aver ottenuto i permessi da ambo le parti, arrivano in tutta sicurezza a quanti possono essere raggiunti, a migliaia di famiglie cristiane o musulmane».