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FALSE RICETTE

Inflazione, la tassa occulta che non ci aiuta a uscire dalla crisi

Chi vive di redditi fissi - salari, stipendi, pensioni -, in un contesto inflazionistico vede il suo potere d'acquisto erodersi nel corso del tempo. Eppure le banche centrali, a partire dalla Federal Reserve americana, puntano decisamente all'inflazione credendo che possa aiutare Stato e imprese a uscire dalla crisi svalutandone i debiti. Purtroppo è una tragica illusione e la pagheremo cara

Economia 04_09_2020 English Español
Dollari

Siccome il denaro è innanzitutto un mezzo di scambio, è evidente che il suo valore "reale" dipenderà dal suo effettivo potere d'acquisto, e da come questo muta, nel tempo e nello spazio. Quante ore di lavoro occorrono per acquistare un chilo di carne? Quanti mesi di busta-paga servono ad un operaio nell'Italia del 2020 per acquistare un'utilitaria? Oppure quanti anni di mutuo per un alloggio? E’ più facile oggi oppure 10, 20 o 30 anni fa? Chi se la passa meglio, un italiano, un tedesco o un americano? Il punto qui non è fare classifiche ma solamente attirare l'attenzione sul fatto che ciò che conta è il valore "reale" del denaro e non quello "nominale".

Chi vive di redditi fissi - salari, stipendi, pensioni -, in un contesto inflazionistico vede il suo potere d'acquisto erodersi nel corso del tempo: i redditi percepiti, infatti, generalmente si adeguano in ritardo e spesso solo parzialmente al rialzo dei prezzi al consumo. A parità di controvalore speso, i beni acquistabili diminuiscono quindi col passare del tempo. Lo stesso discorso vale anche per i risparmi accumulati: se i rendimenti nominali incassati risultano inferiori al tasso di inflazione - e quindi i rendimenti reali sono negativi - i risparmi saranno inesorabilmente erosi in termini “reali”, cioè di potere d’acquisto. L’inflazione, in altre parole, è come una tassa occulta, che ci rende più poveri. Non sembra quindi che un rialzo generalizzato dei prezzi sia nell’interesse dei piccoli risparmiatori e di chi vive con un reddito di lavoro o di pensione.

Eppure tutte le principali Banche Centrali del mondo perseguono un obiettivo di inflazione al di sotto ma prossimo al 2%. Anzi, al tradizionale Convegno annuale di Jackson Hall di fine agosto il governatore della Federal Reserve statunitense, Jerome Powell, ha addirittura proclamato l’inizio di una politica monetaria ancora più aggressiva: d’ora in poi l’inflazione negli Usa potrà anche spingersi oltre il tetto del 2%, per compensare i periodi in cui è rimasta al di sotto di tale livello. Si è passati quindi a un obiettivo di inflazione ”media” del 2%: la Fed vuole tenersi le mani libere per proseguire con le proprie politiche monetarie ultra-espansive e gli acquisti di asset (il cosiddetto quantitative easing) anche qualora venisse superata tale soglia. Le altre Banche Centrali potrebbero seguire a ruota, anche per evitare un altrimenti molto probabile e assai indesiderato apprezzamento delle rispettive divise (euro, yen giapponese, sterlina inglese e yuan cinese, per citare le principali) nei confronti del dollaro Usa, che infatti da alcuni mesi ha iniziato una tendenza ribassista dopo anni di forti rialzi.

Perché mai le Banche Centrali si pongono obiettivi inflazionistici? Una prima motivazione è che salari, stipendi e pensioni non si possono facilmente abbassare, ma lo stesso risultato si può ottenere inflazionando i prezzi: in tal modo, pur restando immutati o in risalita in termini nominali, i redditi fissi vengano svalutati in termini reali, con scarsa consapevolezza da parte della generalità delle persone. Un modo di recuperare "competività" meno evidente e “politicamente” più facile rispetto al taglio del valore nominale di stipendi o pensioni: subdolo ma sicuramente efficace.

La motivazione principale della strategia inflazionistica, tuttavia, oggi pare legata alla sostenibilità dell’enorme mole di debiti, pubblici e privati, accumulatisi nel corso degli ultimi decenni: già prima del Covid i debiti complessivi nel mondo risultavano pari a circa 250 trilioni di dollari Usa, oltre il 100% del Pil mondiale. I debiti hanno iniziato a crescere in modo esplosivo, ben superiore alle dinamiche dell’economia reale, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009. Le politiche monetarie ultra-espansive portate avanti dalle Banche Centrali per gestire la crisi, con tassi di interesse verso e sotto lo zero, hanno incentivato l’indebitamento dei governi e dei privati, portando il debito fuori controllo già prima del Covid. Come ebbe a dichiarare Jerome Powel nel novembre 2019: «Il debito sta crescendo più velocemente dell’economia. E’ molto semplice. Ciò è per definizione insostenibile». E da allora la situazione è molto peggiorata, i debiti pubblici sono ulteriormente aumentati per far fronte all’emergenza sociale-sanitaria-economica - e aumenteranno ulteriormente -, mentre le economie mondiali sono entrate in profonda recessione. Un mix micidiale.

Se i tassi di interesse fossero su livelli storicamente normali, molti Stati - tra cui l’Italia - ma anche grandi imprese private in giro per il mondo, non sarebbero infatti in grado, non solo di ridurre i propri debiti, ma neppure di pagare gli interessi passivi, il cosiddetto “servizio del debito”. La crisi economica mondiale innescata dai lockdown imposti dalla stragrande maggioranza dei governi sta provocando un deterioramento pesante dei conti economici di governi e privati, rendendo quindi ancora meno sostenibili i debiti accumulati. La “cura” dei tassi a zero, ora, non basta più: le Banche Centrali perseguono dichiaratamente obiettivi inflazionistici per portare in territorio negativo i rendimenti “reali”, cioè al netto dell’inflazione. Negli anni passati non ci sono mai riuscite perché l’enorme fiume di liquidità immesso nei circuiti finanziari si era scaricato solamente sulle attività finanziarie: la cosiddetta asset inflation, con Borse e corsi obbligazionari saliti all’unisono, in modo decorrelato con i fondamentali dell’economia reale. Pensiamo che la liquidità globale si aggirava sui 40 trilioni di dollari Usa ai tempi della Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009, per poi raddoppiare a fine 2019 e quindi spingersi verso gli 88 trilioni di dollari attuali (quindi circa 8 trilioni di dollari in più post-Covid), al ritmo di centinaia di miliardi di dollari in più ogni mese. Un fiume di denaro creato ex-nihilo che fa volare le borse mentre le economie si stanno avvitando: a fronte di tale discrasia tra dinamiche finanziarie e dinamiche reali qualcuno dubita ancora della “finanziarizzazione dell’economia” e del ruolo di protagonista assunto dalle Banche Centrali? Invece che di “liberismo selvaggio”, quindi, sarebbe più corretto parlare di “socialismo finanziario”.

E’ importante comprendere, al di là delle dichiarazioni ufficiali, che l’obiettivo principale perseguito dalle Banche Centrali è di sgonfiare in termini reali il macigno enorme di debiti, pubblici e privati. Per evitare dei default de iure dei debitori insolventi, le Banche Centrali puntano a scaricare gli eccessi di debito nel tempo, puntando a dei default de facto, comunque sempre ai danni dei creditori. Si tratta ovviamente di un gioco a somma nulla: i debiti “svalutati” corrispondono, lato risparmiatore-investitore, a dei crediti svalutati. I risparmiatori, in specie i classici BOT-people, si troveranno a sostenere una marcata perdita di potere d’acquisto negli anni a venire perché non riusciranno a proteggere i propri risparmi dall’inflazione. Se sembra poco un 2% di inflazione annua - sempre che non si vada oltre -, pensiamo che con tassi nominali nulli e quindi un rendimento reale negativo del 2% annuo, nell’arco di soli 10 anni il proprio patrimonio dimagrirebbe di oltre un quinto. Inevitabilmente i risparmi saranno scoraggiati, con incentivo a consumare oltre che a investire in modo azzardato, sia sui mercati finanziari che nell’economia reale. Inoltre, col passare del tempo lo stipendio o la pensione faticheranno a stare dietro ai prezzi crescenti del carrello della spesa. L’inflazione è sempre stata, e lo sarà ancora di più negli anni a venire, un modo per trasferire surrettiziamente, ed iniquamente, ricchezza dalla formica alla cicala, dal creditore al debitore. Ovvio che non se ne parli parli in questi termini e si preferisca, invece, presentarla come la “cura” per uscire dalla crisi.

Il rischio di una trasmissione delle dinamiche inflazionistiche anche ai prezzi al consumo nei mesi a venire diviene significativo ora che la Fed lo ha indicato come obiettivo strategico “per rilanciare l’economia e l’occupazione”. Pensare che l’inflazione generi crescita economica reale e occupazione nel lungo periodo, purtroppo, è solo una delle tante fallacie economiche che sopravvivono nonostante la storia economica presenti lunghi periodi di crescita economica insieme a deflazione oppure, specularmente, periodi di forte crisi e disoccupazione accompagnati da tensioni sui prezzi, pensiamo ad esempio alla “stagflazione” degli anni ‘70, che dimostrò l’inconsistenza della curva di Phillips, che vorrebbe inflazione e disoccupazione inversamente correlate.

Il mondo non ha bisogno di "inflazione" per ripartire: falsificare il valore reale della moneta, alterare i prezzi relativi di merci e servizi, immobili e asset finanziari, svalutare l'unità di conto su cui si basano scelte di consumo, risparmio ed investimento, salvare imprese zombie ai danni dei risparmiatori non può essere certamente la vera soluzione alla crisi, per lo meno non per tutti. Se le cause profonde della crisi sono "reali" - invecchiamento demografico, spesa pubblica fuori controllo, iper-tassazione, eccessi di regolamentazione e perimetro dell’intervento pubblico crescente, giustizia e amministrazioni pubbliche inefficaci, crisi morale, ecc. - la soluzione non potrà certamente essere una qualche alchimia di tipo "finanziario" o "monetario". La perseguita “uscita inflazionistica dalla crisi” si tradurrà in un parziale “consolidamento de facto” dei debiti a danno dei creditori e in una riduzione in termini reali di salari, stipendi, pensioni e in generale di tutti i redditi fissi. Gli squilibri finanziari forse diminuiranno, ma diventeremo tutti un po’ più poveri. In particolare la classe media ne uscirà malconcia: sono le regole del socialismo finanziario delle Banche Centrali, dove si incentiva l’azzardo morale ma poi se le cose si mettono male si presenta il conto ai risparmiatori e ai contribuenti.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: cui prodest? Inflazione o deflazione, ovvero l'eterna storia della formica e della cicala. Con l'inflazione il conto lo paga la formica, senza neppure saperlo. Il forte rialzo dei prezzi dell’oro da inizio anno è un buon termometro del crescente rischio percepito dagli investitori di una probabile perdita di potere d’acquisto del denaro nei mesi e anni a venire. Il processo è appena iniziato.