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RIFLESSIONI

Imprenditori e fede, una pagina da riscrivere

Dall'assemblea di Assolombarda uno sguardo su un mondo abbandonato a causa della teologia pauperista in voga negli ultimi decenni.

Attualità 14_06_2011
meomartini

Chi è l’imprenditore nel terzo millennio? Per provare a capirlo si può cominciare da Milano, indiscussa capitale morale a trazione industriale e finanziaria. Qui ha la sua sede Assolombarda – 150.000 imprese associate - la più importante organizzazione locale di Confindustria, che il 13 giugno ha celebrato la sua Assemblea annuale. Come tradizione, davanti al padrone di casa Alberto Meomartini e alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, sono sfilati il sindaco, il neoeletto Domenico Pisapia, i presidenti della provincia e della regione, Guido Podestà e Roberto Formigoni, oltre al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, autore di un discorso appassionato e politicamente scorrettissimo.


Quell’evento suggerisce qualche considerazione sull’identità dell’imprenditoria moderna, e sul rapporto di questa élite con le cose che a noi stanno più a cuore: la fede cattolica e le virtù che ad essa si accompagnano.

Come tutte le cose complesse, anche il mondo degli industriali presenta due facce fra loro molto diverse.

Da un lato, un pragmatismo quasi feroce. L’assemblea di Assolombarda è stata introdotta da un video di pochi minuti, in cui tutti - i pedoni, le auto, le ruspe, i tram - si muovono a velocità accelerata in una Milano perfino più frenetica di quella vera. Come dire: l’imprenditoria è fatta di gente che non perde tempo, e che esige uno stile di vita che non si ferma mai. E che più che pensare, fa. E se proprio pensa, progetta lavoro. Un po’ inquietante.
 
Nello stesso video, nessuna immagine che rimandi alla tradizione religiosa di Milano, né uno scorcio del Duomo, o di Sant’Ambrogio; e questo è coerente con quel paradigma mitteleuropeo caro a Max Weber, secondo il quale da una parte sta l’uomo-professionista che è pubblico e retto dalle sole leggi del mercato e dello stato; dall’altra parte, l’uomo-privato, che se proprio vuole può avere la sua fede, la sua morale e partecipare ai suoi riti. In mezzo, fra i “due” uomini, un muro invalicabile che rende la vita pubblica neutra e “sterilizzata” rispetto alla fede. Dio, (soprattutto se è cattolico) se anche c’è, non c’entra con la mia vita.

Una platea, quella dell’Assolombarda, anche un tantino conformista, come quando decide di intonare l’Inno di Mameli e di indossare le spillette tricolori per i 150 anni del Paese. Patriottici senza pudore, dunque, ma quando il patriottismo filo-risorgimentale è diventato una griffe che fa tendenza.

E si potrebbe proseguire alludendo anche a quelle discrete “fratellanze” che da sempre vanno cercando adepti proprio in mezzo al fior fiore dell’imprenditoria italiana.

Ma fermarsi qui sarebbe ingeneroso, e anzi del tutto sbagliato. Perché poi, ascoltando gli interventi e cercando di cogliere gli umori delle centinaia di imprenditori presenti, ci si accorge che c’è dell’altro. Roberto Formigoni, citando Mario Draghi, dice che “la ripresa dipende dall’esistenza di valori condivisi”. E Meomartini,  Presidente di Assolombarda, gli fa eco, alludendo a quella invero stranissima “installazione” d’arte, la “Montagna di sale” di Mimmo Paladino che i milanesi ammirano accanto al Duomo. “Il sale – dice Meomartini – evoca per noi parole importanti: il salario, ma anche la salute, e la salvezza”. E poi fa l’elogio della sussidiarietà, e in qualche modo perfino delle radici della nostra civiltà, delle tradizioni, ricordando l’importanza di “ricordarsi sempre del posto da cui si è partiti”. Maurizio Sacconi – un passato da socialista – cita Giovanni Paolo II e rivendica l’importanza che le imprese difendano “l’eccezione italiana”, fatta di valori cristiani, di famiglia al centro, di senso della comunità. La platea mostra di gradire. L’immagine della Milano che corre senza pensare, che lavora senza vivere e senza credere, sembra più lontana.


Certamente, almeno alcuni di questi imprenditori sono cattolici, che cercano di vivere la fede senza lacerazioni tra lavoro quotidiano e vita privata. E forse, molti altri tra questi industriali aspettano da tempo una seria, capillare, qualificata opera di evangelizzazione che li raggiunga là dove si trovano ogni giorno.

C’è da chiedersi se su questa frontiera il mondo cattolico abbia fatto in questi decenni tutto quello che poteva e doveva. Se l’imprenditore è oggi molto spesso un fautore della tecnocrazia, un liberal chic senza principi che flirta con il progressismo nichilista, se ha preferito aderire a una loggia piuttosto che a una confraternita; beh, forse, se questo è – almeno in parte - lo scenario dell’imprenditoria del terzo millennio, la colpa è anche di quella teologia pauperista anni settanta, di quella famosa “opzione preferenziale per i diseredati” che ha abbandonato al loro destino le èlite produttive.

C’è allora molto da fare, per portare Cristo e la dottrina cattolica a questi capitani d’industria che hanno risorse economiche e aziende, e che forniscono opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di persone, e prospettive di benessere ad altrettante famiglie italiane. C’è uno sguardo nuovo con cui si possono osservare questi imprenditori in grisaglie, apparentemente così sicuri di sé, e in realtà alla ricerca del “sale” della salvezza come ogni uomo: quello stesso sguardo con cui Cristo vide il giovane ricco, “e subito lo amò”.