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IL LIBRO

Il ribelle capitano Riley e quelli del San Patricio

Ho dedicato all’epopea dei San Patricios un corposo articolo sul mensile Il Timone qualche tempo fa e perciò mi ha incuriosito il romanzo che Pino Cacucci ha dedicato alla vicenda: Quelli del San Patricio (Feltrinelli). L’ho letto con interesse: è molto ben scritto e meglio documentato. Ma non solo.

Cultura 26_05_2015
La copertina del libro Quelli del San Patricio

Ho dedicato all’epopea dei San Patricio un corposo articolo sul mensile Il Timone qualche tempo fa e perciò mi ha incuriosito il romanzo che Pino Cacucci ha dedicato alla vicenda: Quelli del San Patricio (Feltrinelli). L’ho letto con interesse (è molto ben scritto e meglio documentato) e l’ho idealmente aggiunto al film Un uomo, un eroe (1999) con Tom Berenger e alle canzoni che gruppi folk –come i mitici Chieftains- hanno dedicato a una vicenda che gli irlandesi non hanno mai dimenticato (almeno, fino a qualche giorno fa). Una vicenda che, se la conoscessero, piacerebbe molto ai giapponesi, la cui cultura tradizionale ha un alto concetto del valore sfortunato. 

Pino Cacucci, romanziere e soprattutto traduttore di letteratura sudamericana, ha vinto diversi premi, tra cui il Premio Chiara, e da un suo romanzo il regista Gabriele Salvatores ha tratto il film Puerto Escondido, servendosi della sua collaborazione anche per il fantascientifico Nirvana. La copertina del romanzo che qui trattiamo è davvero indovinata: la Madonna di Guadalupe che, come una Pietà, regge tra le braccia il cadavere di un soldato dai capelli rossi. Il protagonista della storia è il tenente d’artiglieria John Riley, dell’esercito degli Stati Uniti. Riley è uno dei tanti irlandesi che la fame e la mano pesante degli inglesi hanno fatto scappare in America. Ma qui ha trovato solo lotta per bande tra immigrati (avete presente il film di Martin Scorsese, Gangs of New York, con Leonardo Di Caprio?) e di nuovo fame. Una sola prospettiva: l’arruolamento. Ma anche nell’esercito prevale l’elemento dei nativi anglosassoni, e irlandesi, italiani, ebrei sono trattati a pesci in faccia. La politica espansionistica degli Usa a quel tempo mirava a strappare al Messico la ricca California, coi suoi porti sul Pacifico, e l’immenso Tejas, che gli americani chiamavano Texas. 

Qui i coloni scesi dal Nord risolvevano tutto a fucilate e a farne le spese erano messicani e indiani. Ma un giorno arrivò alla presidenza messicana il generale Santa Ana, che abolì la schiavitù e introdusse l’obbligo del porto d’armi. E i “patrioti” texani chiesero aiuto ai fratelli statunitensi, che non aspettavano altro. Da qui l’episodio di Alamo e tutte le fesserie che su di esso sono state raccontate (dagli americani, naturalmente). Ma agli Usa il solo Texas non bastava. Così, moltiplicarono le provocazioni e nel 1846, ottenuto il casus belli, dichiararono guerra al Messico. John Riley era stanziato in Texas e vedeva i soprusi dei sanguinari Rangers (altro che Tex Willer e i suoi pards…) ai danni dei messicani, razza inferiore e per giunta papisti. I soldati irlandesi sorpresi a parlare la loro lingua subivano venti frustate. Se li si vedeva in una chiesa cattolica erano angherie. Se difendevano una suora o un prete dai wasp venivano umiliati o addirittura puniti. 

E arrivò il momento in cui John Riley disse basta. Con cinquanta dei suoi uomini buttò la divisa e passò ai messicani. Potevano semplicemente scappare in qualche parte di quell’immenso Continente e rifarsi una vita altrove, ma quel che avevano visto e subìto per anni li aveva indignati. Il governo messicano creò per loro il Batallón San Patricio, con divisa apposita e tanto di bandiera verde con sopra il Santo nazionale irlandese, l’arpa celtica e la scritta Erin Go Bragh, «Irlanda per sempre» in gaelico. Duecentocinquanta uomini al comando del capitano Riley e non solo irlandesi: c’erano schiavi neri fuggiti ai texani, polacchi, tedeschi, scozzesi, pure tre italiani e perfino alcuni americani che avevano sposato donne messicane e ritenevano l’attacco Usa una ingiusta prepotenza. Il Battaglione irlandese diede notevole filo da torcere alle truppe americane, tanto da divenire una specie di incubo per queste ultime. Ma la disparità in uomini e armamenti era schiacciante, e gli statunitensi arrivarono fino alla capitale messicana. 

La guerra finì come doveva finire e gli irlandesi superstiti vennero impiccati come traditori. Tutti tranne Riley, a cui fu riservato un trattamento forse peggiore: fu flagellato pubblicamente, poi marchiato a fuoco su entrambe la guance con una grande lettera «D», deserter, disertore, e lasciato andare. Andò a morire da qualche parte nel vasto Messico. Peccato che di lui l’irlandese John Ford non si sia mai accorto. 

Pino Cacucci, Quelli del San Patricio (Feltrinelli, pp. 215).