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La questione

Il piano Ue sulla ricerca è statalista, serve una decentralizzazione

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Il nuovo piano dell’Unione europea per attrarre ricercatori stranieri è segno del progressismo iperstatalista, che usa la scienza per imporre le proprie ideologie. Invece servirebbe una ricerca più decentralizzata, privata, plurale e libera.

Cultura 14_06_2025

A Parigi, presso la prestigiosa Università della Sorbona, il 5 maggio 2025, si è celebrato l’ennesimo trionfo retorico del progressismo iperstatalista europeo. Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron, in perfetta sintonia, hanno presentato un nuovo piano da 500 milioni di euro (a spese dei contribuenti, naturalmente) per attrarre ricercatori stranieri nel continente. Hanno dichiarato l’Europa «rifugio sicuro della scienza». Il sottotesto è chiaro: bisogna contrapporre la “libera e aperta” ricerca europea alla presunta “oscurità” americana alimentata da Donald Trump, colpevole di tagliare i fondi federali all’università e alla ricerca. Ma è davvero così? Dietro le solenni parole sull’autonomia della scienza si cela un meccanismo profondamente ideologico, centralista e pericoloso. Nessuno sembra capace in Europa di proporre una svolta coraggiosa e necessaria. Solo riducendo i finanziamenti pubblici alla ricerca e favorendo un modello di università decentralizzato, privato e pluralistico si può favorire un ambiente accademico realmente libero. Solo con queste premesse la scienza potrà tornare ad essere luogo di verità, merito e confronto.

Il modello che si vuole continuare a proporre è quello in cui la ricerca è quasi totalmente finanziata dal pubblico, un modello che non può che condurre inevitabilmente alla burocratizzazione e al conformismo. L’intervento statale massiccio nella ricerca universitaria crea un sistema in cui il merito viene soffocato da criteri di appartenenza ideologica, da quote, da agende globali imposte dall’alto, e non da risultati concreti e verificabili.

Nel nome di una “giustizia” distributiva, lo Stato impone tasse ai cittadini per poi finanziare progetti scelti da commissioni spesso più politiche che scientifiche. Inutile fingere: i fondi pubblici raramente premiano o favoriscono i migliori, ma chi sa inserirsi nei meccanismi clientelari o, più facilmente, chi meglio sa adattarsi al linguaggio politico dominante. Le università diventano così fucine di propaganda, incapaci di accogliere il dissenso o anche solo un punto di vista alternativo.

Si invoca la libertà della scienza, ma si dimentica che uno scienziato oggi non è libero di proporre una ricerca critica verso l’ideologia di genere, o scettica verso il catastrofismo climatico, o prudente sul transumanesimo, senza rischiare esclusione sociale, oltre che accademica. L’esempio citato da Macron, secondo cui «nessuna democrazia dovrebbe abolire un progetto solo perché contiene la parola diversità», si rovescia facilmente: oggi, nessun progetto può essere finanziato se non contiene quella parola.

Quali sono, invece, le prospettive di un sistema basato su finanziamenti privati? In primo luogo, esso potrebbe restituire responsabilità e libertà alla ricerca. Il fenomeno del mecenatismo – nella forma di fondazioni, donazioni, imprese o individui – premierebbe la qualità, l’originalità, il coraggio, ma soprattutto l’efficacia. Se un progetto è valido, qualcuno sarà disposto a sostenerlo. Se non lo è, nessuno obbligherà a finanziarlo. Inoltre, un mecenate non avrebbe il potere coercitivo dello Stato: non potrebbe imporre le proprie agende, non potrebbe vietare la concorrenza, non potrebbe zittire il dissenso con leggi o sanzioni. Se un finanziatore dovesse sostenere ricerche aberranti o ideologicamente orientate, altri potrebbero sabotarlo, denunciarlo e impegnarsi per offrire valide alternative. Si creerebbe così un autentico “mercato delle idee”, in cui la verità avrebbe la possibilità di emergere, proprio come accadeva nel mondo classico e cristiano – la vera Europa – dove la libertà intellettuale era spesso sostenuta da singoli mecenati, ordini religiosi, confraternite e benefattori di varia estrazione sociale e culturale.

La scienza non ha bisogno di un rifugio “sicuro”, come vorrebbe Ursula von der Leyen, ma di una pluralità di voci. Solo in un contesto dove coesistono più visioni del mondo, scuole di pensiero e metodi di indagine, è possibile avanzare realmente nella conoscenza. Questo non vuol dire difendere il relativismo scientifico. Al contrario, la verità in ambito scientifico si conquista attraverso un paziente e libero confronto tra ipotesi diverse, alla luce della ragione, dei dati e della realtà oggettiva. La verità scientifica non emerge per rivelazione.

Un sistema decentralizzato permette anche a scuole minori, studiosi marginalizzati, approcci considerati eterodossi dalla politica, di esistere, dialogare e – se dimostratisi validi – di affermarsi. Pensiamo a quanti studiosi oggi sono emarginati non per l’inconsistenza delle loro ricerche, ma perché rifiutano i dogmi dell’accademia progressista.

L’obiezione più comune a questo modello sostiene che anche il privato potrebbe creare monopoli e che il mecenatismo rischierebbe di produrre un’egemonia culturale altrettanto oppressiva. Ma questa è un’obiezione superficiale. Il monopolio, nella ricerca come nell’economia, assai difficilmente nasce in maniera naturale, cioè spontanea, bensì tramite l’intervento statale: leggi, sussidi, licenze esclusive. È lo Stato che rende stabile ciò che altrimenti sarebbe soggetto alla concorrenza. Quando la ricerca privata diventa monopolistica, è quasi sempre per connivenza con il potere politico, non per forza propria. Inoltre, un monopolio privato può essere spezzato con un progetto migliore, con un’idea più convincente, con un mecenate diverso. Un monopolio pubblico, invece, è istituzionalizzato, legalizzato. In una parola: imposto. L’unico modo per sfuggirvi è emigrare o censurarsi da soli. Purtroppo, in Europa avvengono entrambe le cose.

L’Unione Europea, nonostante i proclami, ha dato negli anni prova di una gestione scientifica fallimentare su più fronti: dalle regolamentazioni ambientali scollegate dalla realtà fino alla gestione sanitaria recente, basata più sul panico e sulla tecnocrazia che su dati certi. Una scienza che non tollera la critica diventa superstizione. E una scienza che dipende dai fondi statali diventa strumento politico.

Ridurre il finanziamento pubblico alla ricerca universitaria non significa abbandonare la scienza, ma restituirla alla sua vera missione: cercare il vero, con coraggio, anche contro il potere. Significa smettere di alimentare un sistema autoreferenziale e corrotto, per dare spazio a una nuova generazione di studiosi capaci, indipendenti, radicati nella realtà. L’alternativa è l’ulteriore declino di una scienza trasformata in religione di Stato. E come ogni religione imposta, anche questa finirà per generare più superstizione che sapienza, più servilismo che libertà. La scienza deve tornare a essere libera, non protetta. Decentrata, non pianificata. Finanziata da chi ama la verità, non da chi la teme.



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