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AGLI STATI GENERALI DELLA NATALITÀ

Il Papa e quel discorso sulla speranza rimasto monco

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Intervenendo agli Stati Generali della Natalità, papa Francesco - oltretutto trattato alla stregua di un relatore qualsiasi - ha toccato il tema decisivo della speranza, ma ha evitato di fare riferimento a quella che Benedetto XVI definiva "la grande speranza", ovvero Dio

Ecclesia 15_05_2023
Il Papa tra la Meloni e De Palo agli Stati Generali della Natalità

Se a vedere gli Stati Generali della Natalità fosse stato un marziano, avulso dai giochi politici e dalle correnti ideologiche del pianeta terra, si sarebbe posto una domanda tanto sensata: com’è possibile che esista il problema della denatalità in Italia, se tutti, ma proprio tutti, sono d’accordo che la denatalità è un problema? E probabilmente si sarebbe data una risposta altrettanto sensata: evidentemente non hanno le idee chiare sulle condizioni che favoriscono, sostengono, mantengono la natalità.

Perché fare una famiglia e mettere al mondo dei figli non è esattamente la stessa cosa che laurearsi, comprare un’automobile e andare al ristorante. C’è tutta una concezione della vita in gioco. E in parte, l’intervento di papa Francesco ha toccato i tasti giusti, nonostante sulla stampa non si rilancino altro che gli esempi dei cagnolini. Uscire da una mentalità individualista, puntare sulla famiglia come soluzione del problema, avere speranza: tutti aspetti condivisibili.

Ma dal successore di Pietro ci si aspetterebbe decisamente qualcosa in più. Magari cominciando a dare un nome a questa speranza. Si rimane perplessi nel leggere che ad alimentare la speranza sarebbe «un’azione sociale, intellettuale, artistica, politica nel senso più alto della parola», mentre la visione della vita che nasce dalla fede non è neppure sfiorata. Il Papa cita la Bibbia, scomoda Charles Péguy, dimenticando però che quella speranza è virtù teologale, virtù che non può prescindere dalla sua origine in Dio e dalla destinazione in Dio.

Scriveva Benedetto XVI: «noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. [...] Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine (Spe salvi, 31). La grande speranza, il fondamento della speranza non è risuonato all’Auditorium della Conciliazione.

Non si tratta di un’occasione persa per “fare pubblicità” alla Chiesa, ma di lasciare gli uomini nuovamente alla loro tristezza. Il Papa ha giustamente denunciato la tristezza del mondo come causa di una vita che non riesce più a guardare avanti, che non desidera più che altri, dopo di sé, possano continuare l’avventura della vita. Quella vita così piena di dolore, di prove, di distacchi, di fallimenti; quella vita così minacciata dalla morte, dall’odio, dalla precarietà, dalla malattia. Perché dunque condannare altri alla stessa pena?

Altrettanto giustamente, il Papa ha messo in guardia dalla tentazione di uscire da questa tristezza facendo semplicemente ricorso ad un ottimismo illusorio.  Ma, astenendosi dal dare un nome a quella speranza, ha in ultimo egli stesso lasciato gli uomini senza speranza. Perché, in fondo, «chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita. La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio» (Spe salvi, 27). E Dio, il vero Dio, non è stato annunciato.

Non si può far finta che le famiglie numerose di “etnia italiana” – giusto per provocare un po’ - non provengano in gran parte dal mondo cattolico. Perché occorre, soprattutto oggi, una grande speranza, una speranza ancorata in Dio, e non nelle pur importanti variabili della politica, dell’economia, della società, per credere che una vita che nasce non morirà mai più, qualunque cosa gli accada in questo mondo. La speranza vera, quella che conta sul Signore e non sulle proprie forze, sui propri contatti o sul proprio conto in banca, non delude (cf. Rm 5, 5), perché sa che Dio ha a cuore i nostri figli più di quanto il migliore genitore del mondo possa fare.

L’intervento del Santo Padre è rimasto lì, a metà strada, dando sì legittime indicazioni alla politica, ma senza toccare quelle profondità che solo lui poteva e doveva offrire ad una platea che ha visto sfilare oves et boves: la ripresa della natalità (apparentemente) sostenuta da chi difende l’aborto come una conquista della donna, da chi diffonde la contraccezione come strumento di libertà e di regolazione delle nascite, da chi esalta il divorzio come espressione di emancipazione. Anche qui il Papa è venuto meno al suo dovere di mostrare che andare contro la legge di Dio non può far altro che distruggere un popolo.

Il vero problema per cui ogni anno, implacabilmente, mancano all’appello migliaia di bambini, non sono gli asili nido a pagamento o il quoziente familiare (inesistente), ma lo sterminio di milioni di innocenti, con il sostegno legale ed economico dello Stato, coi soldi dei contribuenti, che però mancano sempre quando si tratta di sostenere le famiglie; il vero problema è la riduzione della sessualità ad un gioco senza alcuna responsabilità, la dissoluzione del matrimonio, martoriato della piaga del divorzio. Eppure Francesco non ha minimamente sfiorato l’argomento; a dire il vero non ha neppure nominato la parola “matrimonio”: fatto piuttosto curioso, se si pensa che matrimonio e natalità stanno in corrispondenza biunivoca.

Papa Francesco era lì, come uno dei tanti che sono intervenuti: forse con contenuti un po’ diversi, ma certamente sulla stessa lunghezza d’onda. Nulla di più ampio, di più elevato, di più profondo. D’altra parte, è questo il posto che gli è stato ritagliato negli Stati Generali. Le nostre rimostranze, Gigi De Palo: il Papa è il Papa e non si può pensare di ridurlo a meno di un’ospite d’onore, che sta lì seduto ad aspettare il suo turno per parlare (ossia 6 minuti di intervento di De Palo, e più del doppio di Giorgia Meloni). Nessun rimpianto per la sedia gestatoria, ma trattare gli ospiti per quello che sono, non sarebbe poi così male.