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Il dono del figlio - Il testo del video

Il figlio non è un diritto, non c'è quindi un diritto dei genitori ad avere un figlio, che è una persona, non un oggetto. Questo è anche il primo motivo per cui non è accettabile la fecondazione artificiale, omologa o eterologa che sia. Inoltre è nella natura del matrimonio che non si possano dissociare i genitori nella procreazione, nella gestazione, nel mettere al mondo, nell'educazione. La questione della sterilità e l'accettazione di un misterioso progetto divino.

Catechismo 19_02_2023

Nell’ultimo incontro abbiamo parlato del matrimonio, della sua essenza, dei suoi fini e dei suoi beni. E abbiamo visto come il Catechismo della Chiesa Cattolica dedichi due grandi sezioni, alla fedeltà coniugale e alla fecondità del matrimonio. Una terza sezione, che ora approfondiremo, è dedicata al dono del figlio. Il Catechismo ne tratta con paragrafi molto densi e particolarmente importanti, in relazione a quello che stiamo vivendo oggi.

Il Catechismo - come già dicevamo la volta scorsa - ribadisce che la procreazione costituisce, insieme al bene dei coniugi, uno dei due fini propri del matrimonio. Questi figli, ci dice sempre il Catechismo, sono un dono. Questa parola “dono” deve essere intesa per quella che è. Se il figlio è un dono, significa che non è un diritto. Cosa significa che è un dono? Vuol dire che la coppia genitoriale pone in essere gli atti propri dei coniugi che, per loro natura, sono aperti a questo dono. Dunque, gli atti propri dei coniugi non possono non essere aperti a questo dono: sarebbe una contraddizione del significato proprio dell’atto coniugale. Ma d’altra parte, attenzione, sono “solo” un’apertura a questo dono; il dono del figlio è qualcosa che li “supera” entrambi: questo è il punto centrale. Il corollario immediato, che è un po’ il cuore di questa sezione del Catechismo, lo troviamo al numero 2378:

«Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono. Il “dono più grande del matrimonio” è una persona umana. Il figlio non può essere considerato come oggetto di proprietà: a ciò condurrebbe il riconoscimento di un preteso “diritto al figlio”. In questo campo, soltanto il figlio ha veri diritti: quello “di essere il frutto dell'atto specifico dell'amore coniugale dei suoi genitori e anche il diritto a essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento”»
[CCC, 2378; citazioni da Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae, 2, 8: AAS 80 (1988) 97].

Questo paragrafo, molto ben fatto, ci porta al cuore del problema e ci dice tre cose importantissime: 

1) Il figlio non è un diritto; non c’è un diritto dei genitori ad avere un figlio. Quindi, non è qualcosa di dovuto, ma appunto è un dono. Lo è per la natura propria di questo dono, cioè: è una persona. Il figlio non è un oggetto, nei cui confronti si può rivendicare un diritto; invece, è una persona che è soggetto di diritti.

2) Esiste un diritto proprio dei coniugi, dei genitori, a porre gli atti propri del matrimonio;

3) Esiste un diritto del figlio ad essere concepito, portato in grembo, partorito, educato nel contesto proprio della famiglia fondata sul matrimonio.

Il documento - qui ampiamente citato dal Catechismo della Chiesa Cattolica e a cui vi rimando perché è fatto in modo veramente splendido - è la Donum vitae, un’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 1988; in particolare, al n. 2378 del Catechismo, viene citato il II, 8. Da parte degli sposi, ci dice la Donum vitae, c’è un desiderio naturale di avere un figlio. Il desiderio è qualcosa di assolutamente legittimo, naturale, e il contesto matrimoniale è quello adeguato per avere un figlio. Tuttavia - e questo è il secondo punto da sottolineare - il matrimonio non conferisce agli sposi il diritto di avere un figlio. Quindi, il passaggio tra desiderio e diritto non esiste in questo contesto, e neanche in altri contesti (ormai, come sapete, ogni desiderio è diventato un ordine, un presunto diritto).

Ma per quale ragione il matrimonio non conferisce agli sposi il diritto di avere un figlio? L’abbiamo accennato prima: perché - spiega la Donum vitae - il diritto al figlio «sarebbe contrario alla sua dignità e alla sua natura», cioè alla dignità e natura del figlio. Pensare che il figlio sia un diritto significa perdere di vista che il figlio è un “chi” e non una “cosa”: è un soggetto personale, non un oggetto. È questa la ragione fondamentale per cui non si può mai parlare di un diritto al figlio nel matrimonio, «ma soltanto - dice ancora la Donum vitae - il diritto di porre quegli atti naturali che di per sé sono ordinati alla procreazione». I coniugi, e solo i coniugi, (poiché) uniti in matrimonio, hanno il diritto di porre questi atti; ma, di nuovo, il figlio è qualcuno che supera questo atto, perché non è il prodotto di un atto o una serie di atti, bensì è il dono di una persona. Dunque, il diritto al figlio non esiste. C’è il diritto, nel matrimonio, e solo nel matrimonio, a porre gli atti che per loro natura sono ordinati alla procreazione. Gli altri aspetti che approfondiremo fra poco dipendono da questo insieme di concetti-chiave, che si tengono l’un l’altro.

Al n. 2375 si dice chiaramente che è lecito cercare di rimediare alla sterilità di uno o entrambi i coniugi, anche ricorrendo alla ricerca medico-scientifica, purché vengano rispettate alcune condizioni. Il n. 2375 del Catechismo, sempre riportando Donum vitae (questa volta nella sua parte introduttiva, al paragrafo 2), afferma che queste ricerche sono da incoraggiare «a condizione che si pongano “al servizio della persona umana, dei suoi diritti inalienabili e del suo bene vero e integrale, secondo il progetto e la volontà di Dio”».
Dunque, queste ricerche ed eventuali applicazioni per tentare di risolvere il problema della sterilità non possono mai ledere i diritti propri della persona; non possono essere imposte, non devono causare delle conseguenze più gravi per la persona, e non possono essere tecniche che ledono il bene della persona e che richiedono, da parte della persona, degli atti immorali, cioè non ordinabili secondo il progetto e la volontà di Dio, come ribadisce il Catechismo. È altresì importante ricordare che l’accettazione della sterilità fisica nel matrimonio, come dice il n. 2379, è possibile solo all’interno della logica della croce e della nostra chiamata a seguire il Signore che porta la croce, ad abbracciare la croce. Se non si entra in questa logica, è chiaro che la sterilità diventa, per così dire, semplicemente un male assoluto, che deve essere risolto o valicato con qualsiasi mezzo possibile: non è così, questo non è possibile.

L’accettazione, dunque, della sterilità è l’accettazione di un misterioso progetto divino, che entra nella storia, dopo il peccato originale, proprio mediante la croce. E come la croce, se viene abbracciata, diventa un mezzo salvifico. Quindi, non è una menomazione del matrimonio, ma è uno strumento di santificazione dei coniugi, uno strumento di salvezza, per sé e per altri. Questa è sempre la grande luce, che non toglie la sofferenza, non toglie magari quel senso di umiliazione, ma lo sublima, lo fa “leggere”, lo fa portare come si porta la croce del Signore, quindi con quel senso di accettazione che pian piano diventa un’adesione piena nella fede. Il Signore passa, sa passare e vuole passare, in qualche modo, dalle nostre croci quotidiane, più o meno grandi, perché proprio attraverso quelle croci Lui ci purifica, ci salva, ci santifica.

Dunque, abbiamo visto che non c’è un diritto dei genitori ad avere un figlio, c’è invece un diritto del figlio - questo è importante - «ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato nel matrimonio» (Donum vitae II, 1). Perché? Perché il figlio è persona. E dunque, essendo persona, egli ha diritto di venire al mondo in un contesto di mutua donazione, cioè di dono reciproco, gratuito, dei coniugi, e non invece in un contesto di produzione o di dominio. Ci sono due princìpi fondamentali, che troviamo nei numeri 2376 e 2377 del Catechismo. 

1. Primo principio: non si possono dissociare i genitori nella procreazione, nella gestazione, nel mettere al mondo, nell’educazione. Cosa vuol dire che non si possono dissociare i due genitori? Vuol dire, in sostanza, che tutte le tecniche di fecondazione artificiale di tipo eterologo (cioè quando il seme o l’ovulo vengono prese da terze persone), oppure di maternità surrogata (maternità sostitutiva) non sono ammissibili perché colpiscono al cuore questo principio. Cerchiamo di capire perché.

I genitori, con il loro matrimonio e quindi il loro consenso matrimoniale, si sono promessi sostanzialmente di avere il diritto di divenire padre e madre l’uno attraverso l’altra e soltanto l’uno attraverso l’altra. Da qui, la natura monogama del matrimonio che nasce appunto dal consenso che fonda questa mutua donazione. Dunque, il diritto di porre gli atti propri del matrimonio è vincolato, da questo consenso, al fatto che ciò avvenga solamente l’uno con l’altra e quindi che si possa diventare genitori solo l’uno mediante l’altra e non mediante terze persone, in nessun momento o passaggio di questa catena che va dal concepimento alla nascita del figlio. E il figlio ha diritto precisamente, come abbiamo detto, ad essere concepito, portato in grembo, partorito e cresciuto in questo contesto. Quindi, il rispetto dell’unità del matrimonio - è questo il punto - esclude il ricorso a terzi.

È nella natura propria del matrimonio che si debba escludere il ricorso a terzi. Anche perché - attenzione - il significato procreativo del matrimonio è che il figlio sia il coronamento, il completamento, il frutto dell’amore dei coniugi, e solo dell’amore dei coniugi. È proprio la natura del matrimonio a richiedere questo. Così com’è un diritto del figlio di essere concepito in questa relazione. Quindi, come afferma il n. 2376 del Catechismo, tutte le tecniche di natura eterologa «ledono il diritto del figlio a nascere da un padre e una madre conosciuti da lui e tra loro legati dal matrimonio». Inoltre, ed è il secondo aspetto, queste tecniche «tradiscono “il diritto esclusivo [degli sposi] a diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro”». Questo numero riporta ancora Donum vitae.

Quindi, abbiamo visto un punto fondamentale: non si possono dissociare, tra loro, i genitori nella generazione dei figli. E il figlio ha diritto, appunto, a nascere da un padre e una madre conosciuti da lui nel contesto del matrimonio. La ragione l’abbiamo già detta e consiste nella sua dignità di persona, che richiede che il figlio stesso sia il frutto di una mutua donazione di un uomo e di una donna uniti in matrimonio.

2. Il secondo aspetto è che non si può dissociare l’atto sessuale dall’atto procreativo. Dunque, non solo non si possono dissociare i coniugi, ma non si possono nemmeno dissociare atto sessuale e atto procreativo. Questo significa che è l’atto sessuale a dover essere l’atto procreativo, il quale a sua volta proviene dall’atto sessuale. Il n. 2377 del Catechismo, si concentra sulle tecniche di fecondazione artificiale di tipo omologo, cioè dove il seme o l’ovulo sono interni alla coppia; quindi non si ha la dissociazione dei genitori, ma si ha la dissociazione tra l’atto sessuale e l’atto procreativo. Perché nemmeno questa dissociazione è ammissibile? Perché altrimenti, di nuovo, si snatura il senso della mutua donazione, slegando il significato unitivo della relazione dal suo significato procreativo, il suo essere ordinato alla procreazione. La procreazione deve essere dunque il frutto dell’atto coniugale nel quale gli sposi si esprimono a vicenda il proprio amore.

Ora, che cosa accade in un contesto come quello della fecondazione artificiale omologa? Accade che interviene, in qualche modo, una terza persona: in particolare, innanzitutto una figura medica; e interviene anche il cosiddetto “dominio della tecnica”, per cui si instaura una relazione di dominio nei confronti del figlio.

Vediamo cosa afferma il paragrafo 2377 del Catechismo sulle tecniche omologhe: «L’atto che fonda l'esistenza del figlio [nel caso in cui si dissoci l’atto sessuale da quello procreatore] non è più un atto con il quale due persone si donano l'una all'altra, bensì [attenzione, questo è il passaggio chiave, in cui si cita di nuovo Donum vitae] un atto che “affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all'uguaglianza che dev'essere comune a genitori e figli”». È un fatto che, in queste situazioni, la fecondazione non è attuata dai coniugi, bensì è attuata da terze persone, che appunto si arrogano una sorta di diritto di “creazione” del figlio. Il figlio diventa quindi il frutto, come dice giustamente la Donum vitae, del potere del medico e del «dominio della tecnica». In questo modo, il figlio non è più riconosciuto come dono, una persona che è un dono, ma come risultato di una tecnica. Questo è oggettivo, poi uno potrà dire di intenderlo sempre in un modo diverso, ma nella natura delle cose è così. Inoltre, prosegue il n. 2377, ancora citando la Donum vitae: «La procreazione è privata dal punto di vista morale della sua perfezione propria quando non è voluta come il frutto dell'atto coniugale, e cioè del gesto specifico dell'unione degli sposi [...]; soltanto il rispetto del legame che esiste tra i significati dell'atto coniugale e il rispetto dell'unità dell'essere umano consente una procreazione conforme alla dignità della persona».

Dunque, di nuovo, il focus è sulla natura stessa dell’atto coniugale e sulla natura propria del figlio, che è riconosciuto uguale in dignità ai genitori e, quindi, l’unico modo perché effettivamente sia riconosciuto così è che sia il frutto della donazione personale dei genitori, senza dover essere il frutto di una fecondazione tecnica operata da un medico. 

Questo è il cuore dell’argomentazione che tende ad escludere la fecondazione omologa. Invece, sta tornando purtroppo in auge, all’interno del mondo cattolico, l’idea secondo cui l’omologa non presenta problemi morali. Tuttavia, abbiamo visto che i problemi morali ci sono e hanno questa duplice natura: 1) si snatura l’atto coniugale; 2) si snatura il riconoscimento dell’identità del figlio come persona. Sono due problemi enormi.

I due problemi della fecondazione artificiale eterologa e omologa richiamano quanto abbiamo detto all’inizio, cioè che non esiste un diritto al figlio. Se esistesse un diritto al figlio, si potrebbe legittimamente reclamare qualsiasi tecnica; invece, non c’è un diritto al figlio, precisamente perché il figlio non è un oggetto, ma una persona, come persone sono i genitori. Dunque, l’atto che pone il concepimento, che porta avanti la gestazione, che porta alla luce il figlio, deve essere conforme alla natura personale degli sposi, quindi la loro deve essere una mutua donazione personale. E va ribadita l’identità del figlio, che - in quanto persona - è soggetto di diritti. E questi diritti, come abbiamo già visto nel paragrafo 2378, implicano due cose, ossia: 1) «di essere il frutto dell’atto specifico dell’amore coniugale dei genitori»; 2) «il diritto a essere rispettato come persona dal momento del concepimento», il che bandisce anche l’aborto e tutte le tecniche di mera sperimentazione sugli embrioni e qualsiasi tecnica che sia lesiva del bene dell’embrione, che è persona.

La prossima volta cercheremo di concludere la sezione dedicata al Sesto comandamento, con le offese alla dignità del matrimonio.