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IL LIBRO

Il bene comune, un fine che discende dalla legge divina

Il fine ultimo della legge naturale, come insegnava san Tommaso d’Aquino, è il ritorno dell’uomo al Creatore, dunque la beatitudine eterna. Il fine prossimo di quella stessa legge, emanazione di Dio, è il bene comune. Sul tema fa luce un nuovo volume monografico, edito da ESD con il contributo di vari studiosi e intitolato: “Bonum in communi. Prospettive su natura umana e legge naturale”

Cultura 27_01_2020

“Il contesto all’interno del quale Tommaso inserisce la sua trattazione della lex naturalis è quello del ritorno della creatura razionale al suo Creatore”. Di qui, stando alla lettura di Damiano Simoncelli del pensiero dell’Aquinate, “l’ens universale è l’oggetto proprio dell’intelligenza umana, rispettivamente come verum universale allorché si consideri l’intelletto e come bonum universale allorché si consideri la volontà”. È questo il presupposto da cui partire per ragionare sul bene comune, stante il suo legame costitutivo con la natura dell’uomo e la legge naturale nel pensiero di san Tommaso.

Tale rapporto è al centro del recente volume monografico Bonum in communi. Prospettive su natura umana e legge naturale” della rivista Divus Thomas (n. 122/2019, pp. 440, Edizioni Studio Domenicano), che raccoglie i contributi di numerosi studiosi di fama nazionale e internazionale che si sono confrontati sugli aspetti salienti del tema in oggetto. Da parte sua, Simoncelli, curatore del volume, ricorda che “l’uomo è legge e provvidenza a se stesso in forza di una sua partecipazione excellentiori modo alla lex aeterna”, ossia in virtù del proprio essere radicato nel modo più sublime nella legge divina stabilita dal Creatore sin dall’eternità.

La legge naturale vede dunque nella beatitudine la propria causa finale remota, mentre ritrova la causa finale prossima - e quindi ciò cui essa propriamente ordina - nel bene comune: l’idealità del bene che è oggetto proprio della volontà. Tale legge costituisce dunque un invito anche a “vivere i bisogni secondo la profondità del desiderio”, inteso nel suo “autentico ruolo di realizzazione del destino umano”.

Sulla scia dell’insegnamento paolino, anche l’Aquinate sottolinea a più riprese che bisogna fare il bene ed evitare il male. Inoltre, sottolinea Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali e di Filosofia della storia all’Università Cattolica di Milano, “Dio è il Sommo Bene, è una Persona che ha creato singolarmente ogni essere umano animato dall’amore, dunque il fine ultimo e complessivo dell’agire umano dev’essere la relazione-amore a Dio, la corrispondenza al suo amore, la comunione con lui”. Secondo questa prospettiva “i precetti dell’amore verso se stessi, Dio e il prossimo costituiscono i principi morali più importanti della legge naturale”.

Perciò, aggiunge Samek Lodovici, “la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la virtuosità di un atto è la sua compatibilità, anche inconsapevole, con l’amore a Dio”. Pertanto “un atto contrastante con il fine ultimo dell’uomo non può essere buono”, anche se occorre altresì considerare che “tra le azioni virtuose che scaturiscono dalle virtù etiche e l’amore di Dio non sussiste una relazione mezzi-fine, bensì tra fini e fine ultimo”. Infatti “l’uomo pienamente morale rispetta sì i giusti doveri e le giuste norme, ma vive motivato dall’amore e le sue azioni virtuose sono espressioni di amore, conseguono l’ordo amoris. Il soggetto pienamente virtuoso non agisce in vista del dovere, bensì motivato dall’amore e dall’apprezzamento del valore del bene che egli può realizzare”. E in effetti, come precisa san Tommaso, “colui che agisce per amore, agisce come un uomo libero o un figlio”.

Con l’avvento della modernità, con le regole di “morale provvisoria” di Cartesio e le posizioni di Montaigne e di Pascal, si afferma al contrario “un’indeducibilità del diretto naturale”, secondo quanto evidenzia Alberto Peratoner, professore di Metafisica, Teologia filosofica e Antropologia filosofica presso la Facoltà Teologica del Triveneto. La conseguenza è l’“accezione convenzionalistica della prassi”, la quale conduce a una “radicale negazione della deducibilità di una benché minima forma di universalità nella sfera morale”. Tuttavia, Pascal sembra ammettere in qualche misura “la possibilità di una legge naturale come espressione dell’universale etico radicato nella struttura relazionale intersoggettiva della persona”. Allo stesso modo la possibilità di un riconoscimento della legge naturale è individuata nella pietà religiosa da Giambattista Vico, stando a quanto evidenziato nel contributo dello studente di filosofia Francesco Fanti Rovetta.

Per quanto riguarda il ruolo della legge naturale nella dottrina e nel magistero della Chiesa, è utile riprendere una riflessione acuta di Joseph Ratzinger citata esplicitamente in un saggio di Francesco Totaro, docente di Filosofia morale all’Università di Macerata: «Il diritto naturale - particolarmente nella Chiesa cattolica - è rimasto il modello di argomentazione con cui essa si appella alla ragione comune nei dialoghi con la società laica e con altre comunità di fede e cerca i fondamenti a favore di un’intesa sui principi etici del diritto in una società pluralistica “secolare”» (J. Ratzinger).

A conferma di ciò, puntualizza Totaro, solo “una legge di natura imperniata sul riconoscimento della dignità-di-essere di ogni persona e sul valore di reciprocità della regola aurea può proporsi come criterio di discernimento, nelle circostanze storiche concrete, tra ciò che realizza l’umano e ciò che da esso si allontana. I valori ritenuti irrinunciabili non vanno deposti, ma debbono farsi valere e mostrare la loro pregnanza nell’orientare decisioni responsabili nelle sfide di civiltà in cui è in gioco il bene della convivenza”.

Gli fa eco Carmelo Vigna, professore emerito di Filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, allorquando rileva che “l’essenza stessa della legge naturale è l’intersoggettività della regola d’oro”, ossia di quel modo di agire che invita a fare agli altri quanto si desidera venga fatto a sé, perché possa realizzarsi un germe di bene comune.