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TEORIA DEL GENDER

Gli ossimori del linguaggio desessualizzato

Per “rispettare” i trans sono sempre più bandite parole come “donna” e “madre”. Una ricerca pubblicata da dieci autori su Frontiers in Global Women’s Health afferma che il linguaggio sessualmente neutro danneggia le donne e complica le cose. Eppure, gli stessi autori sostengono la gender theory, che è all'origine di questi cortocircuiti…

Attualità 03_03_2022

Comunicazione efficace su gravidanza, parto, allattamento, allattamento al seno e cura del neonato: l’importanza del linguaggio sessuale” è un articolo scientifico pubblicato di recente su Frontiers in Global Women’s Health.

In sintesi, i dieci autori della ricerca, per la maggior parte donne, affermano che un linguaggio sessualmente neutro danneggia le donne, seppur le stesse ricercatrici sostengano con convinzione la teoria gender.  Un paio di esempi di lingua desessualizzata (qui ne trovate altri e qui potete leggere alcune applicazioni pratiche di questa neolingua): la parola “donna” viene sostituita con la parola “persona” e il termine “madre” con quello di “genitore”. Si compie questa operazione perché i termini “donna” e “madre” si riferiscono solo alle donne biologiche. Invece, usando ad esempio il termine “persona,” si comprendono nel termine stesso sia le donne biologiche che le “donne” non biologiche, ossia uomini che si credono “donne”, sia le persone che non sentono di appartenere né all’universo femminile né a quello maschile. Il ricorso ad un lemma non sessualizzato sarebbe dunque onnicomprensivo. Infatti la persona può essere un uomo o una donna o un essere umano che si sente sessualmente indefinito e così anche il termine “genitore” può riferirsi sia ad un uomo che ad una donna che a nessuno dei due. Usare “donna”, invece, discriminerebbe i trans e le persone “gender neutral”.

Inoltre, c’è un altro problema con profili spiccatamente psicotici. Vi sono donne che si percepiscono come uomini, ma che non vogliono rinunciare ad alcuni attributi femminili (l’apparato riproduttivo e il seno), né all’uso di questi attributi (partorire e allattare). Allora se si usasse solo la parola “donna”, queste “donne a metà” si sentirebbero private della loro metà mascolina perché non rappresentata in quella parolina. L’escamotage è dunque quello del ricorso al cosiddetto linguaggio additivo, ossia riferirsi sia alle donne che alle “donne” trans. Ad esempio adottare l’espressione “donne e persone che partoriscono” al posto del semplice lemma “donna”.

Fatta questa operazione di espulsione dal vocabolario del grammaticamente corretto (o del drammaticamente corretto) delle parole “donna” e “madre”, sorge il seguente problema: se non posso usare “donna” per indicare, appunto, una donna e qualora non voglia far ricorso al linguaggio additivo, che termine o espressione potrò usare per riferirmi ad una rappresentante del gentil sesso? Sono sempre più diffuse parole o espressioni come “possessori di vagina” o “persona con la cervice” o “partoriente” o “donatrici di nascite” (che però, come abbiamo visto, possono anche esser usate per le donne che si sentono uomini) o “non maschi” o “non uomini”, che ricordano tanto il “non vedente” e il “non udente”. Tra poco arriveremo al “diversamente maschio”.

A tal proposito un esempio viene dalla rivista scientifica The Lancet del 24 settembre scorso in cui sulla copertina campeggiava questa frase: “Storicamente, l'anatomia e la fisiologia dei corpi con vagine sono state trascurate” (ne avevamo parlato a suo tempo). Gli autori del saggio, a commento di questa frase, puntualizzano: «Questa affermazione, in cui la parola “donne” è stata sostituita con la frase “corpi con vagine”, fa parte di una tendenza a rimuovere termini sessuati come “donne” e “madri” dalle discussioni sulla riproduzione femminile». L’intenzione, che l’articolo giudica lodevole seppur attuata in modo errato, è quella di non discriminare le donne che si percepiscono come uomini, ma che, da una parte, non vogliono essere chiamate “donne” e, su altro versante, vogliono conservare gli attributi femminili. Inoltre, aggiungiamo noi, se Lancet avesse usato la parola “donne” sarebbe andata a discriminare gli uomini che si credono donne, ma che non hanno la vagina. In quest’ultimo caso l’uso della parola “donna” per riferirsi solo alle donne biologiche - l’articolo di Lancet riguardava solo queste ultime - sarebbe stato offensivo perché avrebbe escluso gli uomini che si percepiscono donne e che quindi vogliono essere chiamati “donne”. In breve, e al di là di tutta questa confusione grammaticale, il linguaggio gender neutral servirebbe per tutelare la sensibilità delle persone transessuali.

Ciò detto, questo frasario candeggiato nell’ideologia gender - scrivono i nostri autori - porta per paradosso a discriminare le donne. Innanzitutto, e a monte, la comunicazione diventa più complessa e a rischio di fraintendimenti. Un caso eclatante ha riguardato i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie e il Dipartimento della salute australiano. In entrambi i casi i due enti hanno redatto delle statistiche sulla gravità della malattia da Covid nelle donne gravide e non gravide. Ma i due enti non hanno usato queste espressioni, bensì “persone incinte” e “persone non gravide”. Ora, se per il primo gruppo tutti capiamo che ci stiamo riferendo alle donne, non così capita per il secondo gruppo, perché persone non gravide possono essere anche gli uomini, seppur l’espressione sia così bizzarra da sospettare che ci si stia riferendo solo alle donne non gravide. Gli autori dell’articolo concludono su questo punto che “non sembra esserci un modo semplice per comunicare direttamente informazioni scientifiche sulla riproduzione femminile senza usare termini sessuati”.

Altro caso in cui precipitiamo in un vero ossimoro: l’uso dell’espressione “sperma femminile”. Ci stiamo riferendo allo sperma di uomini che si sentono donne o agli ovociti di donne che si sentono uomini oppure di donne che si sentono donne e che non vogliono offendere quegli uomini che si sentono donne ma che non hanno gli ovociti? La risposta agli psichiatri.

Inoltre la neolingua gender disumanizza le donne dato che ci si riferisce a loro indicando parti del corpo o funzioni fisiologiche come la gestazione, il parto e l’allattamento. L’umiliazione del femminile passa anche attraverso lo scippo di funzioni prettamente femminili a favore degli uomini (processo la cui ratio per paradosso nasce proprio in seno a quel femminismo di cui le autrici sono ferventi sostenitrici). Un esempio è dato dall’uso dell’espressione “allattamento al petto” e non “al seno”. La prima espressione si usa per ricomprendere quegli uomini che si sentono donna e allattano un bebè con un biberon. Il Consiglio della Leche League, un’organizzazione per la promozione dell’allattamento al seno con sede negli Stati Uniti, ha parlato di vero e proprio colonialismo e imperialismo linguistico che si vuole imporre sull’uso convenzionale dei termini.

Oltre a questo e in modo più semplice, cancellare le parole “donna” e “madre” porta a rendere invisibili le donne e le madri. Una neutralizzazione del femmineo che è speculare alla neutralizzazione del mascolino avvenuta ben prima. In conclusione, il desexed language è parte della più ampia strategia della gender theory.