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LA LETTERA DI RATZINGER

Giovanni Paolo II, il Papa che sapeva il «potere della fede»

In vista del centenario della nascita di Karol Wojtyla, Benedetto XVI ha scritto un testo pubblicato dalla Conferenza Episcopale della Polonia. Vi si ricorda la «situazione drammatica» in cui versava la Chiesa quando fu eletto Giovanni Paolo II, che con la sua fede nella Divina Misericordia fu segno di speranza ed «elemento essenziale nel crollo dei poteri».

Ecclesia 16_05_2020

Ieri la Conferenza Episcopale della Polonia ha reso pubblico un testo scritto il 4 maggio scorso da Benedetto XVI, in occasione del prossimo centenario della nascita di san Giovanni Paolo II (18 maggio 1920). La vita di Karol Wojtyla e il cuore del suo pontificato vengono tratteggiati dall’uomo che ha condiviso profondamente con lui le fatiche e le speranze di uno dei più lunghi pontificati della storia della Chiesa, e che ne ha raccolto l’eredità divenendo egli stesso Pontefice della Chiesa universale.

Guardando in filigrana la vita e il pontificato di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI coglie gli elementi fondamentali per fronteggiare la grande sfida che la Chiesa si trova a vivere oggi, minacciata dal male da dentro e da fuori. Gli stessi mali che dovette affrontare il Papa polacco: il venir meno delle certezze della fede e della santità della liturgia all’interno, e la morsa asfissiante di un potere totalitario all’esterno.

Il suo pontificato, iniziato il 16 ottobre 1978, giorno della sua elezione, si calava in una Chiesa che «si trovava in una situazione drammatica». Per quale ragione? Perché in quegli anni, spiega il Papa emerito, «le decisioni del Concilio erano state presentate al mondo come una disputa sulla fede stessa, che sembrava privare il Concilio della sua fermezza infallibile e incrollabile». «Questa impressione che più nulla fosse sicuro, che tutto fosse messo in discussione, venne ulteriormente fatta divampare dalla modalità di implementazione della riforma liturgica. Alla fine, sembrava che la liturgia potesse essere creata da sé». Questo clima postconciliare fece in qualche modo crollare la Chiesa «sotto il processo della sua riforma».

Il pontificato di Giovanni Paolo II iniettò in quella Chiesa, malata della propria incertezza e dei propri dubbi, la stabilità della fede in Gesù Cristo. «Questo fu condizionato dal fatto che il nuovo Papa proveniva da un paese in cui la recezione del Concilio era stata positiva: una recezione di rinnovamento gioioso di ogni aspetto, piuttosto che un’attitudine di dubbio e di incertezza in tutto».

Questo rinnovamento, inteso come una traduzione più “umana” della fede, senza metterne in discussione il contenuto, ha segnato anche tutto il suo insegnamento. Il cuore delle quattordici encicliche, secondo Benedetto XVI, è stato il grande messaggio rivelato da Gesù a santa Faustina Kowalska: la Divina Misericordia. Questa “sintesi” del pontificato del Papa polacco è stata suggellata dal momento e dal giorno della sua morte: la sera del 2 aprile 2005 ricorrevano infatti i primi Vespri della Festa della Divina Misericordia, istituita dallo stesso Pontefice.

A proposito dell’istituzione di questa festa, Ratzinger racconta un episodio illuminante. Giovanni Paolo II voleva realizzare il grande desiderio di santa Faustina, stabilendo appunto la festa liturgica della Divina Misericordia. Dopo alcune consultazioni, il Papa aveva pensato alla seconda domenica di Pasqua ma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dallo stesso Ratzinger, giunse una risposta negativa: quella domenica aveva un antichissimo significato liturgico e non poteva essere sostituita con qualcos’altro. «Non fu certamente facile per il Santo Padre accettare la nostra risposta. Eppure, lo fece con grande umiltà e accettò la nostra risposta negativa una seconda volta». Alla fine, si convenne per accettare la proposta del Papa, ma senza alterare i testi liturgici. Benedetto XVI ricorda di essere rimasto molto colpito «dall’umiltà di questo grande Papa, che aveva abbandonato le idee a lui care, perché non aveva trovato l’approvazione degli organi ufficiali che dovevano essere consultati secondo le norme stabilite». Il Papa riformatore sapeva essere un Papa obbediente alla Chiesa.

Questo “compromesso” tra tradizione liturgica, apparizione moderna e umiltà del Papa svelerà, oltre ogni intenzione, il senso profondo della Divina Misericordia, così condensato da Ratzinger: «Il male non otterrà la vittoria finale. Il mistero della Pasqua afferma che il bene in ultimo vincerà, che la vita trionferà sulla morte, che l’amore sconfiggerà l’odio». Un trionfo del bene sul male, e non un compromesso tra i due. Questa vittoria del Risorto, resa disponibile a ciascuno, ha una portata per il mondo intero: «Se la misericordia di Dio non fosse un fatto, allora noi dovremmo trovare la nostra strada in un mondo in cui il potere supremo del bene sul male non è riconoscibile». La vittoria della grazia sul peccato e sull’umana debolezza, resa tangibile nella risurrezione di Cristo, permette allora di comprendere il senso ultimo della storia umana, e anche della vita di ciascuno, perché «la misericordia di Dio è più forte della nostra debolezza».

È a questo livello che Benedetto XVI vede l’unica possibile congiunzione tra il pontificato della Misericordia di Giovanni Paolo II e quello di Francesco: «Giovanni Paolo II non è il rigorista morale, come qualcuno lo ha in parte dipinto. Con la centralità della Divina Misericordia, ci ha dato l’opportunità di accettare gli obblighi morali per l’uomo, anche quando non li possiamo pienamente adempiere. Inoltre, i nostri sforzi morali sono compiuti nella luce della Divina Misericordia, che si rivela una forza che guarisce la nostra debolezza». In altre parole, l’unica possibilità per uscire dalla confusione generata da Amoris Laetitia non è la ricerca di una via accessibile alle sole forze umane, non è l’arrendersi alla realtà di un peccato considerato insuperabile, ma è la ricerca della misericordia di Dio che dona la forza per vivere secondo le esigenze dei comandamenti.

Alla morte di Giovanni Paolo II subito vennero avanzate le richieste della sua canonizzazione e anche di attribuirgli l’epiteto di “magno”. Per quest’ultimo aspetto, Benedetto XVI riflette che, in effetti, le conseguenze sul piano politico del pontificato di Giovanni Paolo II hanno qualcosa di molto simile a quelle degli unici due papi che vengono appunto identificati con tale epiteto.

San Leone I, «senza armi, senza potere politico o militare, grazie al potere delle sue convinzioni di fede, fu in grado di convincere il temuto tiranno a risparmiare Roma. Nella lotta tra lo spirito e il potere, lo spirito si dimostrò più forte». Anche san Gregorio I dovette fronteggiare la minaccia longobarda «opponendo lo spirito al potere e vincendo la vittoria dello spirito». Come loro, anche Giovanni Paolo II «non aveva un potere politico o militare [...]. Nondimeno, il potere della fede si rivelò essere una forza che alla fine scardinò il sistema di potere sovietico nel 1989 e rese possibile un nuovo inizio. Indubbiamente, la fede del Papa fu elemento essenziale nel crollo dei poteri».

Questa tangibilità del potere della fede è «per noi un segno di speranza e fiducia» anche oggi, «in un tempo in cui la Chiesa sta ancora soffrendo l’oppressione del male».