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LA RIFLESSIONE

Gesù Cristo: il Grande assente nella Chiesa di oggi

Si fa sempre più strada, in maniera strisciante, l’idea che possa esistere un cristianesimo senza Cristo. Del resto, piace al Potere una religione che si occupi dei poveri, dell’ambiente e che eclissi la figura ingombrante di questo Cristo unica Verità. Leggere Giussani e Amerio a tal proposito. 

Editoriali 21_08_2020 English Español

Sembra pesare ogni giorno di più dentro la Chiesa un grande assente: Gesù Cristo. Si parla di tutto fuorché di Lui. Nei discorsi ufficiali, nelle prolusioni, negli interventi e ora persino nei documenti sembra sparito ogni riferimento al Figlio di Dio. Si fa sempre più strada, in maniera strisciante, l’idea che possa esistere un cristianesimo senza Cristo. Del resto, piace al Potere una religione che si occupi degli ultimi, dei poveri, dei disagiati, dei diversi, dei migranti, della giustizia sociale, dell’ambiente, del rispetto ecologico, della pace e che eclissi la figura ingombrante di questo Cristo unica Verità con tutto il conseguente armamentario di precetti, dogmi, principi, valori e ideali. Ecco che allora sentiamo autorevolissime voci all’interno della realtà ecclesiale che parlano di tutto tranne che dell’Unicum necessarium. Ma compito della Chiesa, non era quello di «annunciare il regno di Dio e di Cristo e di instaurarlo fra tutte le genti», come parrebbe indicare il punto n. 565 del catechismo cattolico?

È triste dover constatare un grado così basso di consapevolezza del vero compito della Chiesa da parte dei suoi Pastori, come quello che stiamo vivendo oggi. Ed è triste soprattutto per chi, come il sottoscritto, ha conosciuto una prospettiva completamente diversa del cristianesimo ed ha avuto la grazia di essere educato secondo tale prospettiva.

Me le ricordo molto bene, per esempio, le parole di mons. Luigi Giussani quando diceva: «Coloro i quali sostengono che prima di annunciare Cristo bisogna risolvere i problemi politico-sociali, a mio avviso – consciamente o inconsciamente – inaridiscono il cuore stesso dell’annuncio cristiano, secondo cui la salvezza dell’uomo è Cristo e nient’altro che Cristo».

Me la ricordo molto bene anche la denuncia che lo stesso Giussani lanciava circa il pericolo che in «molti ambienti dell’intellighenzia cristiana» e della stessa Chiesa si pretendesse di «impostare ed affrontare i problemi sulla base di categorie mondane».

Oggi sembra che a tutti i livelli valgano soltanto le categorie mondane. Ma questa circostanza finisce davvero per inaridire il cuore dell’uomo, al punto da fargli perdere il senso dell’esatta dimensione delle cose. Mi ha sempre colpito, a questo riguardo, un’altra delle profonde intuizioni di Giussani: «Chiunque operi per migliorare la vita dell’uomo – senza la percezione chiara o confusa, esplicita o implicita, di quel nesso trascendente che costituisce la tensione sostanziale dell’umana coscienza – resta fatalmente vittima di sfasamenti, di deformazioni mostruose della realtà: le cose piccole finiscono per sembrargli grandi e le grandi piccole, finché tutto assume contorni deformati e grotteschi». Sebbene queste parole siano state pronunciate quasi quarant’anni fa, riescono a descrivere in maniera drammaticamente efficace la situazione che stiamo vivendo. Come si fa a non accorgersi della dimensione «deformata e grottesca» oggi assunta da un cristianesimo che, censurando Cristo, finisce per rendere grandi le piccole cose e ridurre a piccole le grandi cose.

Una Chiesa che smarrisca la consapevolezza del mandato affidatole dal Fondatore rischia l’irrilevanza, l’inutilità e l’estinzione. Ricorderebbe l’evangelico sale insipido e finirebbe per essere una delle tante filosofie, visioni, ideologie.

Oggi i Pastori e tutto il popolo di Dio devono tornare a dare un giusto ordine di priorità alle cose, cominciando a gridare dai tetti la prima e più importante di queste priorità: l’incarnazione di Gesù Cristo. Occorre tornare ad avere un’autentica e concreta percezione che l’incarnazione del Verbo c’entra col «qui ed ora», c’entra col presente, perché è un presente e c’entra col presente di ciascuno uomo sulla terra, in qualunque situazione si trovi, ricco o povero che sia. Ricordava ancora Giussani: «Se non c’entrasse col nostro presente, Cristo immediatamente svanirebbe nell’aria, diventerebbe il centro di una filosofia, di una visione, di una ideologia». Esattamente quello che, purtroppo, sta accadendo.

Stiamo assistendo ad un’inversione dell’ordine delle priorità: qualcuno, infatti, vorrebbe far credere che prima occorra risolvere i problemi sociali (migrazione, povertà, giustizia sociale, inquinamento, ecc.) e poi annunciare Gesù Cristo. Ma, come abbiamo visto, è esattamente il contrario.

Invertire l’ordine delle priorità significa affrontare questi problemi sulla spinta di un mero slancio etico. Ancora una volta, da questo punto di vista, Giussani è stato profetico: «Si può ridurre l’influenza della fede e della Chiesa sulla propria azione sociopolitica ad un impulso estrinseco, ad una semplice ispirazione, come se l’esperienza ecclesiale spingesse l’uomo ad interessarsi ai problemi sociali, inculcandogli uno slancio etico verso di essi, ma senza poter aver incidenza sul modo di affrontare i problemi stessi». Continuava facendo un esempio: «Si dice: il Vangelo mi spinge ad interessarmi ai poveri, e questo è certo. Ma se uno si ferma qui, allora il Vangelo tende ad essere solo uno slancio etico, moralistico. Invece il Vangelo ha qualcosa da dire anche sul modo, sulla struttura di giudizio e di comportamento con i quali uno affronta il problema della povertà». Oggi nessuno dentro la Chiesa parla più dei «modi», della «struttura di giudizio» e del «comportamento» con qui affrontare i problemi sociali, anche perché farlo implicherebbe necessariamente il previo riconoscimento di Cristo come Verità da cui tutto consegue. Ed essendo questo assai scomodo, pare meglio affrontare i problemi esattamente come li affronta il mondo che non conosce Cristo.

Aveva ragione anche Romano Amerio nel suo Iota Unum, quando denunciava che per molti Pastori la fede cristiana non è più un principio ma un’interpretazione ed un linguaggio. Questo lo scriveva agli inizi degli anni ’80, paventandolo come rischio. Oggi, purtroppo, pare ormai dilagata l’idea, anche dentro settori importanti della Chiesa, secondo cui, appunto, il Verbo cristiano non è più principio e caput, ma un’interpretazione destinata a conciliarsi con le altre interpretazioni in un quid confusionale che a volte sembra essere la giustizia sociale, altre volte un’astratta idea di solidarietà. Si tace del tutto il principio escatologico della fede cristiana secondo cui la terra è fatta per il cielo e il destino dell’uomo può trovare senso soltanto nella prospettiva ultramondana. Sembra, invece, rivivere da qualche anno la vecchia visione “teologica” sudamericana per la quale il fine soprannaturale della Chiesa deve essere postposto alla lotta per la giustizia sociale. L’idea diventa eretica quando pretende che il disegno di Dio sia che questo mondo debba essere giusto, fraterno e felice. Ricordava Amerio che «in questo modo la perfezione del mondo diviene il fine del mondo, la subordinazione di tutto a Dio viene a cadere, e la Chiesa si confonde con l’organizzazione del genere umano». Ma solo eclissando l’ordine trascendente, eliminando Cristo, si può pensare ad una sorta di “diritto alla felicità” nel mondo di qua, alla costruzione utopistica del paradiso in terra.

Questi fantasmi della teologia sudamericana oggi arrivano da noi non solo attraverso la censura sempre più esplicita della figura di Cristo ma anche grazie alla pericolosa idea che l’opera sociale del cristianesimo debba prevalere sulla sua dottrina sociale.

Ai sostenitori di tale idea, però, è sufficiente ricordare le parole di quello stesso Cristo che tendono a censurare: «Cercate prima il Regno di Dio e fate la Sua volontà». Tutto il resto viene dopo.