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il convegno

Gender, tutte le bugie della propaganda

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Un convegno a Cesena con esperti del campo psicoterapeutico per smontare tutte le bugie del gender svela il grande inganno di questa ideologia e sfata numerosi miti: a cominciare dal rischio suicidio. 

Educazione 14_06_2025

Mentre è in corso la procedura di Bruxelles per adottare la “Strategia 2026-2030 per l’uguaglianza LGBTQ”, che dietro il paravento della lotta alle discriminazioni prevede vari privilegi e fondi per le organizzazioni del variegato mondo arcobaleno, continuano gli studi e, con essi, le evidenze scientifiche, a dimostrazione della drammatica anomalia clinica e psicologica che sta dietro al fenomeno della cosiddetta “incongruenza di genere”, fortemente alimentato e pervasivamente  diffuso nelle società occidentali da alcuni gruppi di potere.

Proprio nei giorni scorsi si è svolto a Cesena il convegno “Uno, nessuno, centomila: e io che sono?”, organizzato dall’Osservatorio per l’Educazione, con l’intento di  realizzare un confronto aperto e approfondito sulle sfide psicologiche, sociali e cliniche legate al delicato tema dell’incongruenza di genere nei giovani.  L’ampia partecipazione all’evento ha sottolineato quanto questo fenomeno sia al centro di un acceso dibattito pubblico e scientifico.

Il primo intervento del convegno – a cura del pediatra Dr. Antonio Belluzzi - ha avuto il compito di offrire un inquadramento storico della questione ripercorrendone le tappe fondamentali: dal cosiddetto “protocollo olandese” degli anni ’90 (metodologia “affermativa” adottata a livello internazionale come standard di cura con uso di bloccanti della pubertà, ormoni cross-sex e, successivamente, interventi chirurgici), fino alle revisioni scientifiche di questi ultimi anni, che hanno segnato un netto cambio di rotta nelle linee guida internazionali, invitando a una maggiore cautela. Diversi paesi, infatti, hanno toccato con mano i devastanti effetti (sia dal punto di vista farmacologico/chirurgico che psicologico) del modello “affermativo” e l’“approccio terapeutico ora privilegia come prima linea di intervento la psicoterapia, una valutazione approfondita delle comorbilità (presenza contemporanea di due o più malattie) psichiatriche e un atteggiamento più esplorativo rispetto all’identità di genere. L’invito, in definitiva, è a non medicalizzare immediatamente i giovani pazienti, ma a considerare con attenzione i disagi psicologici sottostanti. La comunità LGBTQ non approva certamente questo tipo di approccio, dato che spinge per una legittimazione ufficiale e la “normalizzazione” delle proprie istanze, sia a livello sociale che scientifico, ma la realtà è un’altra.

Occorre recuperare – anche se non sarà facile - il buon senso clinico e un approccio libero da ideologie: è quanto ha premesso il Dr. Furio Lambruschi, direttore della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, nel suo intervento. Buon senso e libertà dalle ideologie – ha spiegato - che nel nostro Paese sembrano ancora di là da venire, dato che manca una ricognizione sistematica sulle modalità operative dei servizi che si occupano di disforia di genere e permangono diffuse resistenze a integrare le nuove evidenze scientifiche nella prassi clinica. L’uso dei bloccanti puberali è infatti consentito in casi selezionati, ma resta tuttavia un tema controverso, anche alla luce delle recenti indicazioni del Comitato Nazionale di Bioetica che suggeriscono di privilegiare l’intervento psicoterapeutico come prima linea.

Uno dei punti centrali dell’intervento ha riguardato proprio la frequente sottovalutazione della compresenza di patologie psichiatriche associate alla disforia di genere: disturbi d’ansia, dell’umore, della personalità, alimentari, dissociativi e dello spettro autistico sono presenti in oltre il 50% dei casi. Lambruschi, al riguardo, ha sottolineato l’assoluta necessità di una valutazione approfondita, evidenziando come le problematiche psichiche spesso precedano la disforia di genere e mettendo in discussione l’ipotesi che queste siano solo una conseguenza dello stigma sociale. Particolare attenzione è stata da lui dedicata anche alla “Rapid Onset Gender Dysphoria” (ROGD), una forma a insorgenza rapida che può rappresentare una strategia di “coping adolescenziale” rinforzata dal “contagio” dei social media. In questi casi, l’identificazione come trans potrebbe essere una risposta a conflitti evolutivi o a difficoltà di orientamento sessuale e intimità.

Anche il tema del rischio suicidario, brandito dalla narrazione dominante come arma di ricatto sociale, ne è uscito ridimensionato: i dati mostrano che il rischio di suicidio nei giovani con disforia di genere, per quanto drammatico e superiore alla popolazione generale, è comunque molto inferiore rispetto ad altri disturbi psichiatrici come anoressia o depressione. Tra l’altro, la transizione di genere non sembra ridurre significativamente il rischio di suicidio o le patologie psichiatriche. In conclusione, l’esperto ha invitato la comunità clinica a tornare ai principi della medicina basata sull’evidenza, privilegiando la valutazione e il trattamento delle patologie e promuovendo una riflessione sull’origine evolutiva dell’identità trans. «Solo così - ha sottolineato Lambruschi - sarà possibile garantire il reale benessere dei giovani pazienti e delle loro famiglie».

Il convegno non ha offerto solo una qualificata panoramica scientifica, ma l’ha convalidata attraverso la testimonianza di una mamma appartenente a GenerAzioneD, un’associazione di genitori di ragazzi con disforia di genere, che ha condiviso la storia di desistenza della propria figlia. Si tratta della vicenda di una ragazzina che, dopo un periodo di identificazione trans (immediatamente e incautamente affermato dalla comunità scolastica all’insaputa della famiglia e dal professionista sanitario a cui era stata affidata), grazie all’aiuto di uno psicoterapeuta esplorativo a cui si è affidata in un secondo momento, ha gradualmente abbandonato questa identità per ritrovare un equilibrio con il proprio sesso biologico. Il racconto ha evidenziato le difficoltà emotive e familiari affrontate, sottolineando l’importanza di un sostegno psicologico adeguato e di un approccio clinico prudente e personalizzato. La testimonianza rappresenta un forte invito a riflettere sulla complessità della disforia di genere e sulla necessità di non forzare percorsi affrettati di transizione, valorizzando invece il tempo e lo spazio per l’esplorazione personale.

Purtroppo, al contrario, è ancora in atto una campagna di opinione fortissima che rema in direzione opposta per affermare, con le buone o con le cattive, che è tutto normale. Non sarà facile invertire la rotta; occorrerà attraversare il lungo e oscuro tunnel delle dolorose ferite che questa ideologia sta provocando nella carne delle nuove generazioni e nella società intera, prima che si torni a riconoscere che la realtà non la facciamo noi ma è un dato che ci precede. Come scrisse mirabilmente Chesterton: «La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo (….) Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l'incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto».