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INTERVISTA

Fmi a un europeo? «E' una prassi superata»

«È impensabile che il nuovo direttore non abbia il gradimento dei paesi emergenti». Parla l'economista Simona Beretta.

Attualità 26_05_2011
fmi
I paesi emergenti alzano la voce contro l’Europa per la nomina del nuovo direttore del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) che dovrà succedere a Dominique Strauss-Kahn, dimessosi dopo essere incappato in guai giudiziari. Una prassi consolidata vuole infatti che il direttore del Fmi sia un europeo (mentre alla Banca Mondiale c’è un americano), ma i cosidetti “Brics” (acronimo che sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) hanno firmato un documento comune invitando a prendere atto dei cambiamenti avvenuti nel mondo e ad abbandonare quindi “convenzioni obsolete e non scritte secondo cui il leader del Fmi deve necessariamente essere europeo”. Si tratta di una presa di posizione che pone un ostacolo importante al cammino del ministro dell’Economia francese Christine Lagarde, che proprio il 25 maggio ha ufficializzato la sua candidatura.

Ma sul Fmi e sul senso della scelta del nuovo direttore, abbiamo sentito la professoressa Simona Beretta, docente di Politiche Economiche Internazionali e direttore del Master in International Cooperation and Development dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Professoressa Beretta, cominciamo dall’inizio: cos’è il Fmi e perché è così importante?
Il Fondo Monetario Internazionale ha anzitutto un ruolo storico, perché ha permesso la rinascita del sistema monetario internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. In secondo luogo è un importante strumento di governance monetaria e finanziaria a livello internazionale. Divisa in 24 constituencies, che rappresentano i 187 paesi membri, gestisce il fondo, il che vuol dire decidere perché dare i prestiti, a chi, a quali condizioni. Dunque, non è come il resto delle istituzioni Onu, dove si discute, ci si confronta, ma non si arriva a niente. Il Fmi è operativo ed è perciò un importante luogo di mediazione e di dialogo internazionale, uno spazio di consolidamento delle relazioni internazionali. Ad esempio nella constituency guidata dall’Italia, troviamo la Grecia, l’Albania, il Portogallo, Malta, San Marino e anche Timor Est che, conquistata l’indipendenza dall’Indonesia, ha voluto espressamente entrare nel gruppo dell’Italia che, tra i paesi sviluppati, è quello a minor rischio di mire colonialiste. Inoltre, terzo fattore, il Fmi offre un certo grado di trasparenza pubblica, i processi di decisione sono monitorabili.

Malgrado ciò, però, il Fmi, è stato spesso al centro di pesanti critiche e polemiche.
Credo che il lato negativo più rilevante del Fmi riguardi i tempi di reazione alle crisi. Il Fondo ha tempi di intervento che sono “politici”, molto lunghi, anche anni, quando i mercati finanziari hanno bisogno di risposte immediate. Non è un caso che tutte le crisi finanziarie internazionali siano state gestite dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) di Ginevra, l’istituto che coordina l’attività delle Banche centrali, che è capace di rispondere in tempo reale alle esigenze che si manifestano sui mercati. Per ovviare a questo handicap del Fmi, dopo la crisi finanziaria del 1998 è stato creato il Financial Stability Forum, una sorta di ponte tra la Bri e il Fmi.

I ritardi del Fmi sembrerebbero anche riguardare la propria struttura, viste le critiche in queste ore dei paesi emergenti che considerano anacronistica la direzione europea del Fondo.
E hanno ragione, dal punto di vista politico. Ma non bisogna lasciarsi guidare solo dall’opportunità politica.

Si spieghi.
Dobbiamo ricordare che Fmi e Banca Mondiale sono le due istituzioni finanziarie internazionali nate dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’economia mondiale poggiava sostanzialmente su Stati Uniti ed Europa. E’ lì che è nata la prassi di un presidente della Banca Mondiale americano e un direttore del Fmi europeo. In particolare per quel che riguarda il Fmi, la prassi di un direttore europeo nasce dallo scontro che Europa e Usa ebbero al momento del trattato istitutivo. Da una parte c’era la linea britannica, rappresentata da John Maynard Keynes, che puntava a una istituzione sovranazionale con una moneta virtuale creata dalla cooperazione internazionale che sarebbe dovuta servire per gli scambi commerciali, una sorta di Euro per intenderci. Dall’altra parte c’era la linea americana, che si rifaceva a Henry Dexter White, che invece prevedeva un’istituzione intergovernativa con un sistema di scambi imperniato sul dollaro, convertibile in oro. Prevalse la linea americana, ma come contropartita l’Europa pretese la direzione del Fondo.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti…
Infatti, è per questo che i paesi emergenti hanno ragione nel dire che questa prassi non ha più motivo di esistere. Però bisogna fare attenzione a un altro aspetto importante, che è quello delle capacità. Non si può infatti ridurre la questione della direzione del Fmi a equilibri geopolitici, anche perché, per statuto, i membri del Board del Fmi non sono lì come rappresentanti del proprio paese, ma perché ritenuti in grado di fare gli interessi globali. Quanto al direttore del Fmi è importante che risponda a due requisiti: anzitutto che sia un “tecnico”, uno che conosce bene la materia; in secondo luogo che abbia la capacità di parlare al mondo con autorevolezza. Il problema che si pone, dunque, per i paesi emergenti è se sono in grado di esprimere una personalità di questo genere. Cosa non scontata visto che l’esperienza come protagonisti dell’economia globale è piuttosto recente. In ogni caso sarà fondamentale che qualsiasi sia la persona scelta abbia il gradimento dei paesi emergenti.