Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
LA TESTIMONIANZA

Disforia, colpa di isolamento e ideologia: parola di ex trans

La giovane Helena Kerschner, ora detransitioner  ha 22 anni, ma quando ne aveva 15 aveva iniziato «sentirsi maschio».  A 18 anni aveva avviato l’iter ormonale di riassegnazione del quale, però, si è pentita. La sua testimonianza svela gli elementi che l’avevano portata a quella condizione: l’isolamento e l’ideologia sperimentati nell’ambito di comunità virtuali.

Vita e bioetica 29_04_2021

Non ci sono solamente i soliti militanti conservatori o le femministe a denunciare rischi e pericoli del dogma transgender, tale per cui ognuno è bene che diventi «ciò che ci sente». Da tempo, infatti, in prima linea in questa battaglia troviamo i “detransitioners”, ossia persone, spesso giovani, che, pentite della riassegnazione di genere, desiderano tornare a vivere – o sono tornati a farlo - in accordo al sesso di nascita. I grandi media raramente parlano di costoro, che tuttavia non si scoraggiano, alzando sempre più anzi la voce contro quello che ritengono un grande inganno.

Così fa, per esempio, Helena Kerschner. Si tratta di una giovane donna di 22 anni che, quando ne aveva 15, aveva iniziato «sentirsi maschio». Tanto che a 18 anni, proprio in conseguenza del suo disagio identitario, aveva avviato l’iter ormonale di riassegnazione del quale, però, si è pentita, riuscendo poi fortunatamente a tornare nei suoi originali panni femminili. Ebbene, intervenendo in seno al Q 2021 culture summit, la scorsa settimana, Helena Kerschner ha offerto al pubblico la sua testimonianza, con parole che fanno molto riflettere.

Infatti, la giovane ha spiegato il suo percorso, che è quello che va per la maggiore tra le giovani, essendo stata pure lei protagonista di una disforia di genere a insorgenza rapida (ROGD), ossia di un forte e improvviso senso di percepita inadeguatezza col proprio corpo. Il punto interessante è che la Kerschner ha sottolineato quali elementi l’avevano portata a quella condizione, ovvero l’isolamento e l’ideologia sperimentati nell’ambito di comunità virtuali.

«Mi ero ritrovata in questa comunità on line», ha ricordato, «dove tutto era incentrato sulla giustizia sociale». «C’erano questi modi gerarchici di guardare le persone», ha inoltre aggiunto con la sicurezza di chi ha ricordi assai nitidi, «come se fosse brutto essere cis, non cioè trans, eterosessuale, femmina e bianca com’ero. Ero una ragazza eterosessuale e bianca e sentivo che era brutto esserlo». Tutto ciò, lo si ripete, è accaduto rapidamente, dato nell’allora quindicenne «non c’erano indicazioni» del fatto che si sarebbe di lì a poco trovata a soffrire di disforia di genere. Poi c’è stato l’avvio del percorso, fortunatamente interrotto.

Oggi la Kerschner è convinta che la sua disforia di genere fosse essenzialmente frutto d’un condizionamento esterno: «Credo fermamente all’ipotesi del contagio sociale. Io l’ho provato sulla mia pelle, l’ho visto accadere. Mi guardo indietro e vedo che a così tante persone sta accadendo esattamente quello che è successo a me». La giovane punta poi il dito contro la compresenza di tanti e sottovalutati disturbi che portano a desiderare «il cambio di sesso».

«Ci sono molti problemi di salute mentale concomitanti. C'è molta depressione, ansia, autolesionismo, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi alimentari», assicura, subito aggiungendo una sottolineatura che fa capire quanto, in fondo, senta vicino quel mondo di cui lei per prima faceva parte: «Dovremmo trattare i giovani con disforia di genere nello stesso modo in cui tratteremmo qualsiasi altro giovane con problemi di salute mentale. Dovremmo essere premurosi e amorevoli, prestando particolare attenzione alle cause profonde alla base di tale condizione».

Parole senza dubbio forti, quelle di Helena Kerschner, che potrebbero pure passare come transfobiche. Però è innegabile che siano parole sincere e soprattutto, lo si ribadisce, figlie molto più dell’esperienza che di qualche supposizione o teoria astratta. Ciò non toglie che tale testimonianza vada a corroborare sia quella di tanti altri “detransitioners”, sia le posizioni degli specialisti – come Dianna Kenny, psicologa e docente presso l’Università di Sydney, tanto per fare un nome - che son sempre più convinti che ci sia davvero un «contagio sociale» alla base del boom dei baby trans. Un fenomeno che, ormai da anni, i grandi media esaltano come se fosse la cosa più spontanea e felice, mentre invece andrebbe esaminato con estrema cautela, ascoltando anzitutto chi lo ha vissuto. Helena Kerschner docet.