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PARIGI

COP21, molto rumore per (quasi) nulla

Dopo il protocollo di Kyoto (1997), il presidente Usa Bill Clinton già parlava di accordo storico che avrebbe prodotto un forte impatto positivo sul cambiamento climatico. Diciotto anni e venti conferenze dopo, si usa lo stesso linguaggio alla conclusione della COP21 di Parigi. Quali obiettivi sono stati raggiunti? E cosa ci dobbiamo aspettare adesso? 

Editoriali 14_12_2015
Manifestazione alla COP21 di Parigi

"Sono molto compiaciuto del fatto che gli Stati Uniti abbiano raggiunto un accordo storico con le altre nazioni del mondo per attuare misure senza precedenti per contrastare i cambiamenti climatici. L'accordo raggiunto avrà un forte impatto ambientale ed è fondato su solide basi economiche. Esso riflette un impegno risoluto da parte della nostra generazione ad agire nell'interesse di quelle future". Chi l'ha detto? Barack Obama al termine della conferenza di Parigi? No, risposta errata. Sono parole di Bill Clinton e risalgono all'ormai lontano 10 dicembre 1997, data di ratifica del protocollo di Kyoto.

Quello "storico" accordo non ha prodotto alcun impatto di un qualche rilievo sul clima. All'epoca non vennero imposti vincoli ai Paesi più poveri, gli Stati Uniti non lo hanno ratificato, Canada, Russia e Giappone dopo alcuni anni hanno deciso di non dare seguito agli impegni sottoscritti. L'Unione Europea ha invece raggiunto l'obiettivo prestabilito con il contributo decisivo della recessione economica degli ultimi anni.

Dopo il fallimento del vertice di Copenhagen nel 2009 si è deciso di modificare la strategia adottata negli anni '90 dello scorso secolo. Non più un accordo legalmente vincolante ma l'impegno volontario da parte dei singoli Paesi ad adottare misure di riduzione delle emissioni. L'accordo sottoscritto a Parigi certifica questa impostazione e la ammanta di molta retorica : sulla base delle stime dei modelli utilizzati per la costruzione degli scenari futuri, per mantenere l'aumento di temperatura al di sotto dei 2 °C occorrerebbe porre in atto una riduzione delle emissioni pari a 6.000 miliardi di tonnellate di CO2. Gli impegni complessivamente presi ammontano a 56 miliardi di tonnellate ossia meno dell'un per cento di quanto necessario per raggiungere l'obiettivo prefissato.

Il "prezzo da pagare" per acquisire il consenso di tutti è stato quello di rendere l'accordo il più innocuo possibile. In particolare, è scomparso dal testo ogni riferimento quantitativo alla entità ed agli orizzonti temporali di riduzione delle emissioni. Non sono previste sanzioni per gli inadempienti ed è contemplata la possibilità per ciascuno dei firmatari di ritirarsi entro tre anni dall'entrata in vigore dell'accordo (che dovrà essere ratificato da almeno il 55% dei firmatari). Per molti "catastrofisti" il bicchiere è mezzo, se non per tre quarti, vuoto. James Hansen, lo scienziato della NASA che forse più di ogni altro ha contributo alla diffusione dell'allarme, intervistato dal Guardian, non ha usato mezze parole: "E' davvero una frode, un falso. E' solo una str... Fissiamo un obiettivo di 2 °C e ogni cinque anni proviamo a fare un po' meglio. Solo parole senza valore. Non ci sono azioni, solo promesse".

Noi, al contrario, propendiamo per il bicchiere mezzo pieno: nel decidere quali strategie attuare occorre infatti tenere in considerazione non solo i potenziali rischi che si potrebbero manifestare nel lungo periodo ma, al contempo, le conseguenze negative certe che deriverebbero da azioni volte a ridurre radicalmente le emissioni in tempi rapidi e che andrebbero a colpire soprattutto chi vive in condizioni più disagiate. Senza dimenticare poi che tutti gli scenari di aumento delle emissioni si fondano sul presupposto di una crescita economica ininterrotta e sottintendono quindi la previsione che chi vivrà tra un secolo sarà mediamente molto più ricco di coloro che abitano oggi la Terra. 

Nell'accordo di Parigi si ribadisce la necessità di agire sulla base delle evidenze scientifiche disponibili e nel contesto degli sforzi per eradicare la povertà. In tale ottica ed in considerazione delle numerose incertezze che caratterizzano l'attuale conoscenza del fenomeno del cambiamento climatico sarebbe auspicabile un approccio flessibile, "di mercato", che consiste nella introduzione di una carbon tax che parta da valori contenuti, sia sostitutiva e non aggiuntiva rispetto ad altre forme di prelievo, ed il cui ammontare cresca in funzione della reale della temperatura (e non di quella"modellizzata" che è finora risultata sempre errata per eccesso).

Purtroppo, c'è da temere che non sarà questa la strada seguita. In particolare l'Europa ha intenzione di proseguire sulla strada già intrapresa con Kyoto: con un approccio in stile Gosplan, la definizione di ambiziosi obiettivi di tagli di emissioni che poi daranno origine a minuziosi piani nazionali, locali e settoriali attuati senza alcuna previa valutazione dei relativi costi e benefici. Nel frattempo, se non si invertiranno le tendenze in atto, una crescita economica asfittica ed un inquietante andamento demografico, renderanno i nostri sforzi via via più irrilevanti per le sorti del pianeta.  E noi rischiamo di inabissarci lentamente ancor prima che l'innalzamento del mare possa sommergere parte delle nostre coste.