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OTTOCENTO DA CAPIRE/4

Baudelaire, l'albatro che sprofondò nell'abisso

Baudelaire apre la poesia a nuovi temi mai affrontati prima. Lo spleen e il desiderio di assoluto rappresentano due facce della stessa condizione esistenziale di un uomo che vorrebbe volare nel Cielo e si trova a sprofondare nell’abisso. Qualcosa di simile scrive san Paolo, ma a Baudelaire manca la fede che la salvezza proviene da un Altro.

Cultura 09_04_2017

Baudelaire apre la poesia a nuovi temi mai affrontati prima. Il linguaggio di cui si avvale è una mescolanza di lessico aulico e quotidiano. Anche i «ragni» e i «coperchi» trovano spazio nei versi del poeta, lo spleen e il desiderio di assoluto rappresentano due facce della stessa condizione esistenziale di un uomo che vorrebbe volare nel Cielo e si trova a sprofondare nell’abisso. Siamo farfalle e vermi, angeli e demoni, sguazziamo nel fango perché non riusciamo a librarci nell’aria. Ogni uomo è, in realtà, caratterizzato da questa lacerazione, da una frattura insanabile, almeno con i mezzi puramente umani. La tradizione cristiana spiega questa condizione con il termine «peccato originale»: a causa di questo l’uomo tende al bene, poiché è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma la sua fragilità lo porta a compiere il male. Qualcosa di simile scrive san Paolo, quando afferma che compie il male che non vorrebbe, mentre non compie il bene che vorrebbe. Si chiede allora chi potrà salvarlo da questa condizione. Solo Cristo. Solo un Altro ci può salvare, ci può sollevare dall’abisso di male.

Baudelaire ha la stessa percezione e concezione di uomo, ma gli mancano la consapevolezza e la fede che la salvezza proviene da un Altro. Sono pochi gli uomini contemporanei che vivono la coscienza della distanza tra l’aspirazione ideale a cui tendono e la realtà in cui sono immersi. Pochi uomini riescono a riconoscere l’eterno nella quotidianità opaca che hanno di fronte, pochi sanno intravedere quella luce flebile che è segno della strada per uscire dal tunnel.

Nella poesia Albatro Baudelaire descrive in maniera mirabile la condizione del poeta: «Spesso, per divertirsi, gli uomini d'equipaggio/ Catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,/ Che seguono, indolenti compagni di vïaggio, / Il vascello che va sopra gli abissi amari. // E li hanno appena posti sul ponte della nave/ Che, inetti e vergognosi, questi re dell'azzurro/ Pietosamente calano le grandi ali bianche,/ Come dei remi inerti, accanto ai loro fianchi.// Com'è goffo e maldestro, l'alato viaggiatore!/ Lui, prima così bello, com'è comico e brutto!/ Qualcuno, con la pipa, gli solletica il becco,/ L'altro, arrancando, mima l'infermo che volava!// Il Poeta assomiglia al principe dei nembi/ Che abita la tempesta e ride dell'arciere;/ Ma esule sulla terra, al centro degli scherni,/ Per le ali di gigante non riesce a camminare».

L’albatro è un re del Cielo che accompagna dall’alto le navi che solcano gli oceani. Solo lì, dall’alto, può contemplare da una giusta prospettiva la terra. Quando viene catturato, malauguratamente, non perde solo la sua libertà, ma anche la fierezza e l’autorevolezza, apparendo goffo in ambienti che solo per lui insoliti. Quell’albatro, esule dalla terra e abitante di un altro luogo, che Baudelaire sente molto affine a se stesso, rappresenta bene l’immagine dell’uomo più in generale che è cammino verso la vera propria patria. Chi è, però, consapevole di ciò? Chi vive l’avventura del cammino sulla terra nella prospettiva di essere in cammino verso la vera patria? Il cristiano, o meglio colui che ama Cristo e che è davvero povero nel senso evangelico, vive la dimensione terrena come pellegrinaggio verso la meta da raggiungere. L’uomo medioevale ama per questo concepirsi come pellegrino in cammino verso la vera patria.

Non ho certo casualmente fatto riferimento all’epoca medioevale che condivide con Baudelaire la dimensione fortemente simbolica della realtà. Il simbolo consiste nell’uso di un animale, di una persona, di un oggetto per esprimere un’altra realtà più profonda. L’uso di un simbolo deve essere comprensibile e interpretabile dalle persone appartenenti alla comunità di un certo luogo e di un certo tempo. «I simboli sono quindi delle cose, dei gesti, delle parole che ci rendono alleati, parenti e che ci permettono di riconoscerci come tali. Essi non fanno altro che farci assumere la struttura di persone legate ad altre, membri di una famiglia, di un gruppo, di una comunità e che hanno in comune una storia, alcuni valori, degli usi, dei riti, dei monumenti» (M. Scouarriec).

Ogni epoca ha, quindi, i suoi simboli. Non tutte le epoche sono ricche di simboli allo stesso modo. Esistono culture più simboliche e altre meno simboliche. «Proprio perché, nella nostra cultura, si è data una certa priorità – e persino esclusività – ad un approccio materialista e commerciale per spiegare la vita e le relazioni, abbiamo alla fine svalorizzato e perduto la loro dimensione simbolica. […] Il simbolo […] cerca di stabilire una relazione tra persone che comunicano tra loro, che si scambiano delle idee e che si intrattengono reciprocamente» (M. Scouarriec). Potremmo definire «simbolico» ciò che unisce il particolare con l’universale, con il tutto.

Dopo l’immagine dell’albatro, ecco un’altra immagine che colpisce lo sguardo di Baudelaire: i ciechi. Dalla dimensione marina ed, in un certo senso, esotica che il poeta deve aver colto durante il suo viaggio non completato in India si passa ad una situazione cittadina e parigina. Il poeta si rivolge direttamente alla sua anima, termine che gli scrittori naturalisti a lui contemporanei, imbevuti di cultura materialista e scientista, hanno ormai cancellato dal vocabolario: «Contemplali, anima mia; essi sono davvero orribili!/Simili ai manichini; vagamente ridicoli;/ Terribili, singolari come i sonnambuli;/ Mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi.// I loro occhi, in cui s'è spenta la scintilla divina/ Come se guardassero lontano, restano levati/ Al cielo; non li si vede mai verso i selciati,/ Chinare, pensosamente, la loro testa appesantita.// Essi attraversano così il nero sconfinato,/ Questo fratello del silenzio eterno. O città!/ Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,// Innamorata del piacere fino all'atrocità,/ Guarda! anch'io mi trascino! ma, più  inebetito d'essi,/ Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?».

Il poeta è colpito nel vedere che i ciechi, soli tra tutti coloro che camminano nella città, non rivolgono gli occhi a terra, ma verso il Cielo, come cercando proprio lì qualcosa, come se chiedessero una risposta a ciò che la propria anima desidera. Gli altri, invece, dimentichi della loro aspirazione, si perdono nella distrazione della città, presi dal piacere. Baudelaire si sente simile e, al contempo, differente dai ciechi: come loro, si trascina per le vie della città, ma è, forse, (così almeno interpreto questi versi) meno consapevole e deciso nell’affidare al Cielo le risposte alle sue domande. Ecco allora il paradosso: i ciechi sono coloro che vedono bene! La tradizione antica presentava il grande poeta Omero come cieco: privo della vista, sapeva vedere con gli altri sensi e con gli occhi del cuore e dell’immaginazione. Il cieco è, allora, l’immagine del vero poeta.