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IL MOTU PROPRIO

Basta dogmi: è la nuova socio(teo)logia di Francesco

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Il motu proprio col quale Francesco riforma gli statuti della Pontificia Accademia di Teologia: la teologia “in uscita” non partirà più dalla dogmatica, ma dall’antropologia o dalle scienze sociali. Non ammetterà più un primato della ragione ma si farà anche con le emozioni e i sentimenti.

Editoriali 06_11_2023

Nel giorno della festa di tutti i santi, mercoledì 1 novembre, Francesco ha firmato la Lettera Apostolica “Ad theologiam promovenda” sul rinnovamento degli statuti della Pontificia Accademia di Teologia, fondata nel 1718 da Clemente XI. La breve Lettera in forma di motu proprio ridefinisce il senso della teologia cattolica, sostenendo che c’è bisogno di una «svolta», un «cambio di paradigma», una «coraggiosa rivoluzione culturale», un «ripensamento epistemologico e metodologico». Il testo va quindi ben oltre lo scopo di dettare i criteri per il rinnovamento degli statuti dell’Accademia e intende presentare la teologia nuova, quella della svolta. La quale – se di svolta o rivoluzione si tratta – non dovrà avere più niente a che vedere con la precedente teologia. Quanto stabilito nella Veritatis gaudium (2018), viene ora ribadito con particolare solennità.

Su questo tema nevralgico la questione principale consiste nel ritenere o meno che la fede cattolica abbia delle essenziali pretese epistemiche nei confronti della ragione teologica, che per definizione è un «pensare la fede nella fede». Ora, su questo punto primigenio ci sono da tempo nella Chiesa due impostazioni incompatibili tra loro che possiamo qui sommariamente definire “metafisica” l’una ed “ermeneutica” l’altra.

Le due teologie in parola non possono convivere perché il loro “cominciamento” è opposto, e questa divisione teoretica è all’origine di molte altre divisioni, ormai evidentemente laceranti, interne alla Chiesa di oggi. Si tratta infatti di pensare la fede in due modi diversi. Con la Lettera apostolica “Ad theologiam promovenda” ora Francesco sceglie una di queste impostazioni teologiche e, qualificando questa scelta come una “rivoluzione”, intende dire che l’altra debba essere abbandonata. Come si vede questo motu proprio è breve ma pesa parecchio.

Secondo Francesco, anche la teologia, come la Chiesa, deve essere “in uscita”. Così dicendo, egli non esprime solo una generica esigenza pastorale. La teologia è già pastorale in se stessa, e lo era anche quella che ora si dice che deve essere abbandonata, dato che permette di pensare la fede nel modo corretto, da cui dipende la vita della Chiesa e di ogni singolo credente. Nella Lettera apostolica l’espressione “in uscita” ha un significato epistemico, relativo cioè alla disciplina scientifica che essa è.

“In uscita” vuol dire che la teologia non può più cominciare dalla fede nella rivelazione, dal deposito ricevuto nella tradizione, cosa, secondo Francesco, «astratta, ideologica e autoreferenziale», ma deve partire dall’«apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità», non bisogna più fare una «teologia da tavolino» perché «anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada». La teologia “in uscita” non partirà più dalla dogmatica, ma dall’antropologia o dalle scienze sociali. Non ammetterà più un primato della ragione ma si farà anche con le emozioni e i sentimenti.

La nuova teologia deve essere «fondamentalmente contestuale, capace di leggere e interpretare il Vangelo nelle condizioni in cui gli uomini e le donne quotidianamente vivono, nei diversi ambienti geografici, sociali e culturali». Non si tratta più di leggere e interpretare le condizioni in cui gli uomini e le donne vivono alla luce del Vangelo, ma il contrario. La teologia parte quindi dall’esperienza, deve adottare un «metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei segni dei tempi». Ma siccome anche l’esperienza è frutto di un discernimento, la teologia sarebbe discernimento di un discernimento.

Ora, questa impostazione della teologia cattolica è precisamente quella che, in modo impreciso ma non sbagliato, viene definita “progressista” o “modernista”, quella che è senz’altro incompatibile con la Fides et ratio, per quanto riguarda i rapporti tra fede e ragione, e con la Veritatis splendor, per la teologia morale: tutto è insieme oggettivo e soggettivo, tutto è soggetto al tempo come lo sono appunto le “situazioni” da cui si vuole partire, tutto è interpretazione. Il dogma o le norme morali sono sedimentazioni di interpretazioni susseguitesi nella storia, il discernimento non è solo applicativo, ma costitutivo del deposito della fede e della morale. La Lettera di Francesco cita San Tommaso, ma il primo articolo della prima questione della Summa, che tratta appunto il tema della scienza teologica, rientra tra le posizioni precedenti la “svolta” e da abbandonare.

Se la scienza teologica non procede più dai principi della fede, come voleva san Tommaso, assunti come veri alla pari di quanto avviene nelle altre scienze (pur se con qualche differenza), ma nasce dal contesto storico considerato luogo teologico, la teologia deve essere dialogica, come appunto dice Francesco. Ma anche qui, attenzione. Non si tratta di dire che il teologo deve misurarsi con gli altri saperi, assumendo come punto di vista la teologia cattolica intesa come il “pensare la fede nella fede”, ma deve dialogare per costituire la scienza teologica, il dialogo appartiene al processo costitutivo, alla pari della rivelazione o addirittura con un ruolo primario e precedente, dato che anche la rivelazione sarebbe frutto storico di una interpretazione (non c’era il registratore ai tempi di Gesù).

Per questo essa – dice Francesco – deve assumere «una cultura del dialogo e dell’incontro tra diverse tradizioni e diversi saperi, tra diverse confessioni cristiane e diverse religioni, confrontandosi apertamente con tutti, credenti e non credenti». Andrebbe bene se il teologo cattolico sapesse “prima” chi egli sia, non va più bene se egli acquista coscienza di quello che è da questo dialogo. In ogni dialogo, anche quello epistemico, non può mancare l’annuncio.