Aborto in Costituzione, l’autodistruzione del costituzionalismo
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Dopo la Francia anche la Spagna vuole inserire nel suo Testo fondamentale il diritto all’aborto. Ma costituzionalizzare l’aborto significa negare la Costituzione stessa, poiché un diritto che nega la vita nega anche la possibilità stessa di ogni altro diritto.

L’iniziativa del Governo Sánchez di introdurre un nuovo comma (il 4) nell'art. 43 della Costituzione del Regno di Spagna del 1978, volto a sancire esplicitamente il diritto all’«interruzione volontaria della gravidanza» come espressione del diritto alla salute sessuale e riproduttiva, rappresenta un atto di rottura dell’ordine costituzionale e dell’architettura razionale che lo sorregge. L’idea di incorporare un simile principio all’interno del Titolo I, che regola i diritti e i doveri fondamentali, costituisce un tentativo di sovvertire il significato stesso della Costituzione, trasformandola da garanzia della vita e della dignità della persona in strumento di autodeterminazione illimitata e di potere sul vivente. Il Testo fondamentale spagnolo contiene, nell'art. 15, una formulazione limpida e inequivocabile: «Todos tienen derecho a la vida» (Tutti hanno diritto alla vita). Questo principio non è né programmatico, né contingente: esso enuncia una verità giuridica e antropologica essenziale, ovvero che la vita costituisce il presupposto di ogni altro diritto. Essa non è un bene disponibile, poiché precede la libertà e ne fonda la possibilità.
Inserire accanto a questo precetto una disposizione che riconosca un diritto a sopprimere la vita nascente significherebbe rovesciare la gerarchia dei beni costituzionali, elevando la libertà individuale al rango di potere sovrano, sciolto da ogni limite ontologico e da ogni ordine assiologico. La conseguenza sarebbe la frattura del sistema, la perdita della coerenza interna tra i diritti fondamentali e la dissoluzione del loro fondamento unitario nella dignità della persona. La proposta governativa non si limita a tollerare l’aborto entro determinati limiti di depenalizzazione (il che è già gravissimo), come avviene nell’attuale assetto legislativo riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale; essa pretende di trasformare un’eccezione in principio, di convertire una zona di non punibilità in un diritto soggettivo perfetto, esigibile e garantito dallo Stato. In tal modo, il potere pubblico sarebbe chiamato non solo a non reprimere, ma a cooperare positivamente all’eliminazione di un bene che la stessa Costituzione riconosce come meritevole di tutela. Si tratterebbe di una mutazione genetica del diritto costituzionale, poiché l’ordinamento si troverebbe a proteggere giuridicamente l’atto di negazione di uno dei suoi presupposti logici: la vita come fondamento del diritto. In tale prospettiva, la libertà individuale viene disancorata dalla verità del bene e trasformata in potere costituente permanente. Il diritto si riduce a proiezione normativa della volontà politica, e la Costituzione perde la sua natura di limite, divenendo la carta di legittimazione di ogni arbitrio democratico.
Il costituzionalismo, nato per contenere la forza e subordinare il potere alla giustizia, si autodistrugge nel momento in cui eleva a diritto la facoltà di negare la vita altrui. Il diritto, privato del suo ancoraggio razionale, si riduce a volontà di potenza istituzionalizzata. La dignità della persona, invocata come fondamento di questa proposta, subisce una radicale distorsione concettuale. Essa cessa di essere ciò che è, la qualità intrinseca dell’essere umano in quanto tale, e diviene una costruzione derivata dall’autonomia, un attributo riconosciuto solo a chi è in grado di esercitare libertà di scelta. Tale impostazione, lungi dall’estendere la dignità, la nega alla radice, poiché la condiziona alla volontà. La vita del concepito non sarebbe più tutelata in quanto realtà umana, ma subordinata al consenso di chi la porta in sé. In questo modo, il diritto cessa di riconoscere il valore dell’essere per piegarsi al dominio del volere. Il costituzionalismo moderno, nel suo nucleo originario, presuppone un ordine di giustizia che precede e misura la volontà legislativa. Quando la Costituzione si emancipa da questo ordine (questo, però, è la conseguenza della modernità giuridica), quando non si riconosce più vincolata da un criterio di verità circa ciò che è giusto, allora essa si trasforma in pura forma procedurale del potere.
La proposta di inserire in Costituzione il diritto all’aborto è espressione di questo processo di secolarizzazione radicale del diritto, in cui la forma giuridica sopravvive alla sostanza morale. Ciò che viene proclamato diritto non è più ciò che è conforme al bene dell’uomo, ma ciò che la maggioranza momentanea decide di tutelare. In questa deriva, la Costituzione smette di essere una norma superiore perché perde il suo fondamento assiologico. La sua forza non deriva più da un contenuto oggettivo di giustizia, ma dalla mera efficacia della decisione. L’ordinamento cessa di essere giuridico nel senso forte del termine, poiché la giuridicità è la forma della giustizia, non della volontà. Una Costituzione che garantisca la soppressione della vita innocente non limita il potere, bensì lo assolutizza, poiché concede all’uomo il dominio sul principio stesso da cui il diritto trae la propria ragione d’essere. L’aborto elevato a diritto costituzionale rappresenta dunque la dissoluzione del concetto di persona e l’annullamento della distinzione tra libertà e arbitrio. La libertà, sradicata dal bene, si converte in potere di negazione; l’eguaglianza, privata del suo fondamento ontologico, diventa criterio di uniformità decisionale; la dignità, ridotta a strumento di autodeterminazione, si svuota del suo contenuto trascendente e universale. Il Testo costituzionale non sarebbe più la casa comune dell’umano, bensì l’atto sovrano di una civiltà che, in nome della libertà, decreta la negazione dell’essere.
Costituzionalizzare il diritto all’aborto significa, in ultima analisi, negare la Costituzione stessa, poiché si spezza il nesso che unisce la norma alla giustizia, il diritto alla verità dell’uomo, la libertà al limite che la ordina. È il gesto con cui il costituzionalismo democratico, dimentico della propria vocazione razionale (e non razionalista), trasforma la suprema garanzia della persona in strumento di dissoluzione del personale. Dietro il linguaggio dei diritti si cela allora l’ombra della loro fine, poiché un diritto che nega la vita nega anche la possibilità stessa di ogni altro diritto.
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