150 anni di Thomas Mann, il suicidio gaudente di ogni umanità
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Lo scrittore tedesco nasceva il 6 giugno 1875. La sua vita e la sua opera mostrano gli abissi di una civiltà in decadenza che celebra la propria autodistruzione.

Il 6 giugno di 150 anni fa nasceva Thomas Mann (1875-1955). Il cuore oscuro della sua eccelsa prosa pulsa nel dissidio lacerante tra vita e arte. Vita intesa come sovrastruttura borghese, falsa perché formale, artefatta. Vita come finzione perché negli accadimenti dell’esistenza l’Io autentico non si ritrova ed è smarrito, non vive, ma è stretto nelle catene delle consuetudini, delle convenzioni, delle apparenze, dei doveri sociali, delle regole del buon vivere. L’arte è invece catartica, luogo dell’esistenza autentica perché rispondente all’identità dell’uomo, al suo spirito, è strada liberante che conduce l’uomo all’eccelso, al sublime. Uno dei lavori di Mann in cui in modo più cristallino si descrive questo dissidio è il racconto Tonio Kröger, dove l’esacerbata sensibilità dell’adolescente Tonio non solo lo porta ad isolarsi dai suoi coetanei, amanti dello sport, della vita attiva, della pragmaticità e prosaicità dell’esistenza, ma lo conduce anche a scoprirsi artista, a scoprire la vetta inviolata dell’assoluto.
Tutto si può e si deve spendere per giungere in cima a quella vetta che però si pone al di là dei limiti terreni. Ecco il patto scellerato stretto dal compositore Adrian Leverkühn con Mefistofele nel Doctor Faustus: il demonio avrà la sua anima e in cambio questi gli donerà venticinque anni di genio. Mefistofele rispetta il patto e Leverkühn raggiungerà vette creative incredibili, scrivendo anche opere estremamente innovative (il riferimento quasi esplicito è alla dodecafonia di Arnold Schönberg).
La tensione al sublime in Mann si manifesta come cupio dissolvi. Non è al seguito di Apollo che la bellezza compiuta e perfetta si manifesterà. Non saranno gli umanisti, progressisti, positivisti e razionalisti come Serenus Zeitblom, nel Doctor Faustus, e Lodovico Settembrini, ne La montagna incantata, a permettere il trionfo dell’uomo sulla bassezza e la stolidità del quotidiano. Bensì sarà Dioniso a vincere, sarà il nichilista e rivoluzionario Leo Naphta, rivale di Settembrini, a trovare un senso al non senso dell’esistenza, un senso però oscuro, tenebroso, appunto mefistofelico.
Il riscatto allora avviene per Mann tramite il disordine – come nella musica di Leverkühn che sovverte l’ordine dei riferimenti classici del comporre – la malattia e la morte. Leverkühn contrae volutamente la sifilide affinchè nella follia possa attingere al genio. Lo stato alterato della mente come condizione per evadere dal carcere banale della vita. La sifilide fu la stessa patologia di cui era affetto Friedrich Nietzsche e Nietzsche e Schopenhauer furono i due filosofi di riferimento di Mann, per sua esplicita ammissione (cfr. T. Mann, Romanzo di una vita, Il Saggiatore, 2012, p. 23). Dei due autori lo scrittore tedesco fece proprie solo alcune idee. Sicuramente il nichilismo nietzchiano e poi, in merito a Schopenhauer, la «potente negazione etico-spirituale e […] la condanna del mondo e della vita» (Ib., p. 24).
Tutta la trama de La montagna incantata si svolge poi in un sanatorio svizzero, luogo in cui per un certo periodo fu ricoverata la moglie di Mann. Il sanatorio sorge sulla cima di una montagna: a valle si prepara la guerra. La malattia è una condizione incantata perché ti separa da una esistenza bellicosa, degradante, gretta, insignificante. Il sanatorio allora è simbolo eloquente che la vita è in realtà una malattia, una malattia dell’anima, la cui cura non può che essere l’opposto della vita, cioè la morte. Solo aldilà della vita palpita l’eccelso. Scrive in modo rivelatorio Mann in Morte a Venezia: «Riposare nella perfezione è l’anelito di chi si affatica verso l’eccelso; e non è forse il nulla una forma di perfezione?» (Mondadori, 1970, p. 21). È la celebrazione oscura del nulla, è il nichilismo estetico come via perversa di redenzione. La liberazione di ogni limite materiale potrà far accedere ad una condizione solo spirituale.
Da qui il quasi didascalico titolo di un racconto famosissimo di Mann: Morte a Venezia. Morte come volontario consumarsi nella straziante ed esangue contemplazione, ormai malata e sfinita, di una bellezza immacolata. È la scelta di Gustav von Aschenbach (personaggio ispirato al compositore Gustav Mahler) che si lascia morire piuttosto che separarsi dal suo amato Tadzio, un avvenente adolescente. Anzi è la bellezza di Tadzio a sfiancarlo prima e poi ad ucciderlo. Un’estetica ferale, letale e fatale. Von Aschenbach non parlerà mai con Tadzio proprio perché la bellezza è ineffabile, inesprimibile perché inafferrabile in questa vita.
L’ideale di bellezza di Mann è destinato solo alla contemplazione, mai alla realizzazione. È una bellezza immacolata, pura, ideale, tanto ideale che non è raggiungibile e non tangibile, perché il nostro tocco potrebbe solo sporcarla. È il sublime nella sua accezione più romantica e più tanatofila. Ecco perché von Aschenbach s’innamora di un ragazzo e non di una ragazza, perché, per l’omosessuale Mann, l’omosessualità è l’“amore” impossibile, irrealizzabile, irraggiungibile e come tale esprime al meglio il parossismo dello strazio dell’ineffabile, del conato frustrante di dire l’indicibile. Inoltre l’omosessualità, anzi la pederastia – e Mann, ci dicono i suoi diari, era attratto da adolescenti e pre-adolescenti e probabilmente abusò di uno dei suoi figli allora 13enne – la pederastia è simbolo per Mann dell’amore perfetto, perché puro, non inquinato dalla procreazione: si ama l’amato di per sé. Il colera che contrae von Aschenbach in una Venezia in disfacimento – si veda il capolavoro di Luchino Visconti Morte a Venezia – è l’amica che lo conduce tra le braccia della morte e così potrà amare veramente, congiungersi con l’autentica bellezza che qui è offuscata e ammorbata dal peso dell’esistenza. Il fascino del sepolcro è il contraltare del ripudio della vita. Non è solo simbologia letteraria. Due sorelle di Mann morirono suicide, probabilmente anche uno dei suoi figli, quello abusato, e lui stesso scrisse: «il suicidio mi fu molto vicino per sentimento» (Romanzo di una vita, op. cit., p. 24).
Negli stessi miasmi della decadenza esistenziale si snoda la trama del capolavoro di Mann I Buddenbrook – pubblicato quando il futuro premio Nobel aveva solo 26 anni (e alcuni sospettano che tale perfezione stilistica e di contenuto possa essere davvero la contropartita di un patto con il diavolo) – in cui il personaggio principale, Thomas, è l’anti-eroe piccolo borghese che lucidamente soffre in sé la lacerante dicotomia tra desiderio di riscatto, di grandezza e impulso autodistruttivo. La consumazione dell’anima del personaggio principale, che si attua mentre si ispessisce sempre più il guscio vuoto di una quotidianità borghese, rappresenta il tentativo insano di confondersi in un’altissima idea estetica della vita. Una malattia dell’anima, un acuirsi snervante della sensibilità, un dissolvimento lento, lentissimo delle proprie risorse interiori, uno sfaldamento di un universo esistenziale, un morbo che attacca ogni forza vitale e che spinge al solipsismo, all’isolarsi da una vita borghese percepita come formale e cava al suo interno. Nella storia di Thomas e più ampiamente della sua famiglia in declino vi è poi rappresentata con profondità sconcertante l’intera decadenza di una civiltà, la nostra. La consunzione di Thomas è quella dell’Occidente. Un corpo ormai in putrefazione.
La grandezza di Thomas Mann, autore però dal fascino pericoloso, non sta nella soluzione indicata: il disordine ribelle, l’aprirsi a forze oscure spirituali, l’abbandonarsi languido ai morbi dell’esistenza per poi cedere alla morte. La sua grandezza sta nell’aver colto con penetrante nitore alcuni tratti salienti della sensibilità di allora e di oggi: la sofferenza e l’insofferenza del nulla, il vuoto carsico che scava da dentro le esistenze dei contemporanei di Mann e nostri, il suicidio gaudente di ogni umanità, di ogni autenticità, il disfacimento morboso di ogni sostanza morale.
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