Sudan: la guerra dura da 31 mesi, i media si svegliano solo adesso
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Sudan, la guerra civile dura da 31 mesi, scoppiata per una lite di potere fra due generali della giunta golpista e degenerata in violenza etnica senza limiti, soprattutto nel Darfur. I media occidentali l'hanno ignorata, ora la scoprono. Ma la scoprono male, perché vi colgono l'opportunità di fare polemica politica. Ignorando la vera natura della più grande tragedia umanitaria.
Il Sudan è in guerra da 31 mesi. L’assedio di el Fasher, la città del Darfur conquistata dalle RSF il 26 ottobre, è durato 18 mesi. In tutto quel tempo, mentre 150mila persone morivano di fame, malattie, sepolte sotto le macerie delle loro case bombardate e uccise dai contendenti, mass media, forze politiche, organizzazioni non governative, osservatori ed esperti di scenari internazionali in Italia quasi non se ne sono occupati. D’altra parte non c’era e continua a non esserci interesse neanche per altri conflitti, per altre crisi: il Myanmar dove si combatte dal 2021 e un milione di rifugiati disperano di poter tornare un giorno a casa, Haiti che da tre anni è ostaggio di centinaia di bande armate, il Tanzania e i mille civili uccisi dalla polizia nel giorno delle elezioni, il 29 ottobre, il colpo di stato militare il 12 ottobre in Madagascar, il Mali e sua la capitale assediata dal Jnim, il gruppo jihadista che la giunta militare aveva assicurato di poter sconfiggere con l’aiuto della Russia…
Invece, improvvisamente, del Sudan si parla, anzi ne parlano in tanti, anche in troppi. Perché, quindi, il silenzio prima e tanto rumore adesso?
«Il sangue che non può essere politicizzato viene ignorato – sostiene Giulio Meotti – in Sudan non c’è un ‘oppressore bianco’, nessun cattivo coloniale da resuscitare. Il Sudan è ideologicamente inutilizzabile. La sinistra non può assorbire questo tipo di sofferenza, non può tradurla in grammatica morale. Riconoscere il Sudan significherebbe affrontare il male senza lo specchio del peccato coloniale».
In sostanza, dice Meotti, se di una crisi, una disgrazia, un conflitto non si può dare la colpa all’Occidente, allora non merita parlarne. Può essere una spiegazione, almeno per quel che riguarda i mass media e il mondo delle Ong. Ma se non si può accusare l’Occidente di essere responsabile di una crisi, di un male, però lo si può accusare di non fare niente per impedire un male, per comporre un conflitto, per mettere fine a una crisi ed ecco che allora merita occuparsene.
«Qualcuno qui può dire che non sapevamo che cosa sarebbe successo?» domandava, a proposito della caduta di el Fasher e del massacro di migliaia di civili, Tom Fletcher, sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari, presentando il 30 ottobre al Consiglio di sicurezza Onu la sua relazione sulla situazione umanitaria in Sudan. «La crisi sudanese – proseguiva – è nella sua essenza un fallimento della protezione e della nostra responsabilità di difendere il diritto internazionale». Chiedeva infine azioni immediate per fermare le atrocità sui civili, accesso umanitario completo e senza ostacoli in tutto il Sudan e finanziamenti. Su questo punto ha insistito dicendo che il 74% del piano di risposta alla crisi umanitaria in Sudan non è finanziato e che quello in aiuto ai rifugiati lo è meno ancora.
Il rimprovero è rivolto chiaramente all’Occidente perché Stati Uniti, Unione Europea e paesi europei sono i principali finanziatori degli aiuti umanitari. Quanto al diritto internazionale, alle azioni per fermare i massacri, ai corridoi umanitari, che fare quando due generali hanno deciso di impadronirsi del loro paese e sono determinati a combattere a oltranza fino alla sconfitta totale dell’avversario e dei suoi alleati, incuranti delle conseguenze sulla popolazione e a costo di ritrovarsi alla fine padroni di un paese in rovina, leader di una popolazione esausta, annichilita dalla paura, dalle malattie, dalla fame, dalle sofferenze e dai lutti?
In estrema sintesi, “un Occidente determinato brilla per assenza”. Questo giudizio arriva a conclusione di articoli scritti spesso da persone che del Sudan non si sono occupate né da quando è in guerra né prima e che per parlarne e scriverne ricorrono a letture e consultazioni affrettate.
Il Sudan è in guerra dall’aprile del 2023, da quando due generali, Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, autori di un colpo di stato nel 2021 e fino ad allora alleati, si contendono il controllo del paese. Il primo, di fatto il capo dello Stato, controlla l’esercito nazionale, il secondo ha ai suoi ordini le RSF, una forza paramilitare. A scatenare il conflitto, dopo mesi di tensione tra i due, è stata l’intenzione di al-Burhan di integrare le RSF nell’esercito. Nel Darfur la guerra è resa più feroce da un chiaro intento genocida, etnicamente motivato. La regione è abitata da tribù di origine araba e africana. Le RSF sono reclutate tra le tribù arabe, le stesse che tentarono di annientare le tribù africane nel 2003 e negli anni successivi, forti del sostegno del governo all’epoca presieduto da Omar Hassan al-Bashir. Allora morirono più di 300mila civili. Di nuovo, a el-Fasher e nel resto del Darfur, è sulle tribù africane che infieriscono le RSF.
Il fattore etnico spiega la ferocia, ma per il generale Dagalo conquistare tutto il Darfur e il vicino Kordofan, vuol dire controllare molte delle miniere d’oro del paese e tutti giacimenti di petrolio, cosa che il generale al Burhan e i suoi alleati non possono accettare. Dall’evolversi della situazione dipende se l’obiettivo dei due contendenti continuerà a essere l’intero territorio nazionale o se Dagalo punterà alla secessione delle regioni conquistate, con l’enorme svantaggio, però, di non avere uno sbocco sul mare.
Questi i fatti. Diversi recenti osservatori dello scenario sudanese, invece, rifiutano quella che secondo loro è una visione semplicistica. In Sudan, sostengono alcuni, in realtà si combatte una guerra per procura tra nazioni straniere – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia, Turchia… – che si servono dei due generali per estendere la loro influenza nell’area. Per altri dietro ad al-Burhan ci sono i Fratelli Musulmani che stanno attuando un “piano strategico per rimodellare il panorama geopolitico della regione e oltre”. Presentano quindi Dagalo come una specie di baluardo, di resistenza contro la loro avanzata. C’è persino chi ritiene che le vittime del Darfur siano i cristiani, dimenticando che circa il 95% della popolazione sudanese è musulmana. «L’Africa è troppo nera e il Darfur troppo cristiano per essere visto e per preoccuparsene» succede persino di leggere, insieme a espressioni di rammarico per i cristiani del Darfur ridotti in schiavitù.
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