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Sindrome italiana: giustizia politica contro Trump

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La sentenza di primo grado di colpevolezza di Donald Trump dimostra che gli Usa sono diventati come l'Italia: uso politico della giustizia. Ma anche il rischio di una guerra civile fra due sistemi opposti.

Editoriali 03_06_2024
Trump a processo a New York (La Presse)

La condanna in primo grado decretata dal tribunale dello Stato di New York nei confronti di Donald Trump è un episodio di enorme gravità, che proietta ombre cupe sulla campagna elettorale presidenziale statunitense e radicalizza ulteriormente la dialettica politica nel paese, già tesa ed estremizzata a livelli di guardia per la tenuta della democrazia.

Nonostante l'iter giudiziario sia ben lungi dall'essere concluso e le probabilità che a Trump venga inflitta in primo grado una pena detentiva siano complessivamente basse, questa inusitata situazione è passibile di produrre delle sollecitazioni sulla prassi istituzionale e sul clima sociale imprevedibili, e potenzialmente devastanti.

L'elemento che salta agli occhi se si considera la storia del procedimento giudiziario in questione, a somiglianza degli altri che pendono sull'ex presidente, è la evidente prevalenza delle motivazioni politiche su quelle di diritto. Tutta l'inchiesta, e il giudizio che ne è seguito, recano tracce inconfondibili di una giustizia contra personam, e della precisa volontà di colpire un avversario politico per cercare di espellerlo dalla scena. 

Al di là del fatto che il comportamento addebitato a Trump (la falsificazione di documenti contabili per coprire il pagamento di denaro alla ex pornostar Stormy Daniels in cambio del suo silenzio su una relazione tra i due) sia considerato provato o meno, esso sarebbe in sé stato passibile soltanto di una sanzione amministrativa, mentre è stato considerato reato dal tribunale soltanto in base alla tesi che esso rientrasse nell'obiettivo di condizionare la campagna elettorale: una forzatura enorme che difficilmente sarebbe stata utilizzata e giustificata, se non contro un bersaglio da demonizzare a tutti i costi.

Si aggiunga a ciò non soltanto il fatto che il procuratore di Manhattan che ha istruito il caso, Alvin Bragg, è schierato con il Partito Democratico (questo è normale negli Stati Uniti, in quanto la carica è elettiva e a tutti gli effetti politica), e che è stato finanziato dall'organizzazione Open Society Foundation di George Soros, ma anche e soprattutto che pure il giudice nel processo, Juan Merchan, è stato un finanziatore delle campagne elettorali Dem, e che sua figlia Loren è titolare di uno studio di consulenza elettorale, Authentic Campaigns, pure affiliata allo stesso partito.

Che vi sia stato un accanimento partigiano contro Trump può essere negato soltanto da chi è ideologicamente schierato a prescindere contro di lui. E gli altri processi imminenti a suo carico non sembrano avere natura diversa: da quello sul suo presunto incitamento all'invasione del Campidoglio (episodio su cui le ombre di ambiguità e i sospetti di strumentalizzazione da parte dei Dem sono innumerevoli) a quello per la detenzione di documenti classificati, per il quale spicca la disparità assoluta di trattamento tra lui e Biden. Quali che siano gli sviluppi politici dei prossimi mesi, questi attacchi potranno avere conseguenze irrimediabili: a causa di essi Trump potrebbe vedere indebolire il suo consenso elettorale, e perdere le elezioni; o, pur vincendole, essere costretto a governare perennemente azzoppato, sotto la spada di Damocle di una sempre possibile defenestrazione, o di una detenzione che, inflitta a un presidente in carica, assumerebbe effetti grotteschi e tragicomici agli occhi del mondo intero. Un eventuale rovesciamento del verdetto a lui sfavorevole in appello non cambierebbe ormai il danno gigantesco subito da Trump e dall'ordinamento democratico.

Tutta la strategia giudiziaria contro l'ex presidente dimostra ampiamente come, da quando il tycoon newyorkese è entrato in politica, la democrazia statunitense sia stata contagiata in forma molto severa da una vera e propria “sindrome italiana”: uno spregiudicato uso politico della giustizia attraverso il quale una coalizione tra apparati pubblici, organizzazioni politiche, élites economiche ad esse legate ed élites intellettuali-mediatiche cerca in ogni modo di espellere dal gioco politico un attore ritenuto un “corpo estraneo”, verso il quale si verifica una vera e propria “crisi di rigetto”.

Da tale punto di vista, le analogie tra il caso di Trump e quello di Silvio Berlusconi sono impressionanti. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad un leader che arriva alla politica dall'imprenditoria, che catalizza le simpatie di una larga parte di società lontana dalle classi dirigenti e diffidente verso esse, che viene demonizzato da quelle classi come un pericoloso eversore populista, e che si cerca di dipingere come un poco di buono. Nel caso statunitense, quella “crisi di rigetto” maturata da quasi un decennio assume caratteristiche ancor più inquietanti e preoccupanti.

In primo luogo, perché essa si traduce sempre più in una polarizzazione estrema che prefigura addirittura scenari da guerra civile proprio nel paese guida dell'Occidente: una destabilizzazione che inevitabilmente si ripercuoterebbe con esiti drammatici sugli interessi economici, sulla credibilità, sulla sicurezza di tutti i paesi liberaldemocratici.

In secondo luogo, perché essa configura un regolamento di conti interno a quella potenza proprio mentre è in atto il confronto serrato, su scala planetaria, tra spinte a una verticalizzazione globalista e tecnocratica del potere e resistenza dei principi  rappresentativi e della sovranità popolare. Trump in questo momento è il leader riconosciuto di una posizione critica in Occidente rispetto a quella concentrazione di potere, e su dossier fondamentali, come quello della guerra russo-ucraina, sostiene posizioni fortemente eterodosse rispetto all'attuale linea delle classi politiche transatlantiche. Su tali temi cruciali il dibattito sarebbe fatalmente falsato e sbilanciato se egli fosse stritolato dalla macchina distruttrice della malagiustizia.

Infine, l'offensiva giudiziaria scatenata contro l'ex presidente e candidato repubblicano dimostra che anche il sistema costituzionale storicamente più solido ed equilibrato dell'Occidente stesso, quello che permette le maggiori garanzie alle libertà individuali e limita al massimo gli abusi giudiziari (a differenza di quello italiano e di molti stati europei) è esposto alle distorsioni e manipolazioni veicolate dall'ideologia, e può essere occupato manu militari da forze corporative e grandi potentati uniti in difesa dei loro privilegi contro ogni principio della costituzione stessa. E che quindi anche la democrazia statunitense è piombata in una crisi strutturale. Un segnale angosciante per chiunque desideri la sopravvivenza di ordinamenti liberali nel mondo.