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DOSTOEVSKIJ/7

Quell'Amore nella libertà che illumina l’umano

«Anche se Cristo non fosse la Verità, io amerei Cristo più che la Verità stessa!». Questo paradosso di Dostoevskij mostra a quale altezza si pone l'innamoramento dell'autore per Gesù Cristo. Egli sa che la questione dell'esistenza è una questione di Amore. Perché l'amore definisce. Definisce l'io e la sua manifestazione.

Cultura 13_05_2016
Fëdor Dostoevskij

«Anche se Cristo non fosse la Verità, io amerei Cristo più che la Verità stessa!». Questo paradosso di Dostoevskij mostra a quale altezza si pone l'innamoramento dell'autore per Gesù Cristo. Egli sa che la questione dell'esistenza è una questione di Amore. «Cosi ami ... ecco ciò che sei». Perché l'amore definisce. Definisce l'io e la sua manifestazione. Per Dostoevskij il credo si pone al di là del dogma, della dottrina: Cristo si può solo amare e ciò sta al di là di ogni regola moralista.

I romanzi e i personaggi di Dostoevskij appartengono al realismo dello spirito; sono cioè tipi spirituali in cui ciò che si manifesta, è si la realtà, ma la realtà che trascende dal bieco realismo. Il carattere della scrittura dostoevskiana e quello d'essere una scrittura doppia, nella quale, sotto l'apparenza, appare la realtà del racconto evangelico. Dostoevskij mostra che, nella realtà viva dell'esistere, Dio in Cristo si manifesta ora e qui in ogni istante. Il Cristo di Dostoevskij è il Dio presente che si fa carne, cioè Provvidenza, fino a morirne. Nella produzione del romanziere ci sono una figura e un romanzo nel romanzo che rendono evidente, in modo ancor più chiaro che in ogni altro scritto, il carattere religioso ed i rimandi evangelici presenti nella narrazione: la figura del Principe Myskin ne L'Idiota e la Leggenda del Grande Inquisitore ne I Fratelli Karamazov.

Chi è Myskin? Di quale natura è fatto? Nell'apertura del romanzo, lo si incontra subito su un treno e lo si scopre in modo superlativo "libero". Non teme di mostrarsi per quello che è, povero, né poi, più in là, quando riceverà una grossa eredità, di essere ricco. Non teme di apparire semplice, perché lo è. Non teme di donare quel che ha, senza desiderare alcun ritorno. Il Principe Myskin è veramente libero. Accostandoci a lui abbiamo l'impressione d'essere travolti da un uomo di altissima nobiltà, di grande fascino ipnotico, di trovarci davanti a qualcuno che detiene i segreti e la verità dell'esistenza e che li vive con semplicità e dono, fidandosi. È disponibile per tutti e a tutti "guarda il viso" scoprendone il profondo mistero che porta in sé. Quando vede Nastas'ja Filippovna per la prima volta in una foto, ne resta colpito fino ad innamorarsene subito. Ella è una donna bellissima ma il suo viso svela in pari tempo la grande sofferenza che l'ha toccata.

In questa donna bellissima, scrive Romano Guardini, Myskin incontrerà il suo destino: «L'amore che nasce da una compassione che uccide». Nastas'ja Filippovna non rimane indifferente per il Principe Myskin.  È immediatamente amata da lui, così come ogni persona che egli incontra, anche la più umile, perché ciascuno per lui rappresenta qualcosa. Il Principe sembra avere per ogni uomo o donna un'infinita capacità di compassione. Ogni sua azione è un "piegarsi a mano tesa" verso l'uomo che incontra, al di là di ogni possibile pregiudizio, anzi con estrema libertà. Egli incontra, ama e basta. È di una natura che sa vedere e affermare la verità: «quest'uomo non è verace solo perché non sa mentire, egli afferma la verità appena l'abbia riconosciuta, sempre e ovunque, indifferente alle conseguenze che ne derivano ... anche se sovente da esse nasceranno guai molto gravi. Ma la verità vuol essere detta ed egli gli obbedisce incondizionatamente (in Myskin si vede il riflesso degli incontri e delle parole di Cristo in merito alla verità). Quest'uomo buono, capace di compassione verso l'altro, apparentemente verrà travolto dalla croce altrui che lo porterà alla sua stessa distruzione: ...ti ho amato così tanto da voler morire con te e per te» sono le parole che definiscono l'epilogo del romanzo, là dove Myskin stenderà la sua mano, facendo compagnia a Rogozin, l'assassino, e a Nastas'ja Filippovna, l'assassinata, accovacciandosi vicino a loro, sullo stesso letto in cui i due amanti hanno condiviso il tragico destino. 

Ancor più il tema della libertà e del senso, che si giocano nel cuore dell'uomo e che sola sa dire «Io ti credo ... io credo», quella libertà che sola ci fa degni d'essere uomini, ne I Fratelli Karamazov diviene l'atto tragico posto a metà del perdersi e del ritrovarsi per l'uomo in cerca di senso, il logos della necessità di definire il proprio essere.  Ne I fratelli Karamazov vi è un romanzo nel romanzo: La leggenda del Grande Inquisitore. La leggenda mette in luce lo scontro della Libertà, dell'Amore, dell'adesione alla Bellezza o al suo contrario: è la lotta, inevitabile e così profondamente umana, tra Cristo e l'anticristo, come destino di ogni singolo uomo.  Come scrive P. Evdokimov: «Dio diviene uomo perché l'uomo diventi Dio mediante la grazia e partecipe della vita divina». Ma a quale livello avviene lo scontro? Dove si situa il cuore dell'uomo, quel cuore in cui l'uomo raggiunge la più reale somiglianza con il suo creatore: la libertà.

Il Cristo della leggenda è il Cristo del silenzio, quello stesso silenzio del Padre alla sua morte. Egli sembra subire il fiume di parole che sostengono l'agire dell'inquisitore, la decisione di condanna da parte di quest'ultimo.  Cristo si trova di nuovo posto davanti alla tentazione subita da parte di Satana nel deserto: il mondo potrebbe essere conquistato da Cristo alla fede mediante il miracolo, il potere, il mistero, ma egli preferisce il silenzio, come sulla croce. Anche la sua morte, che attende la resurrezione, appare silenziosa, troppo umana, comunque interpellante. Dentro la storia dell'umanità, suggerisce Berdiajev, «Dio si nasconde per rimanere discreto e fa si che l'uomo decida liberamente per lui». Questa è la stoltezza di Dio più forte della saggezza degli uomini.

Qual è la tesi dell'Inquisitore? È quella di dare da subito il Paradiso Terrestre. Come scrive S. Frank, «Il programma del Grande Inquisitore è l'idea del Paradiso Terrestre. Salvezza, per lui, significa liberazione dell'uomo da ogni tragicità, dal dubbio e dal tormento della coscienza, cioè il raggiungimento definitivo di un'autocoscienza semplice ed ingenua, al di là del bene e del male, come quella dei bambini». In fondo tale progetto potrebbe essere condiviso da Cristo ma per Cristo il problema non è il peccato, perché ben conosce l'uomo e la natura terrigna di cui è fatto, quella della razza dei Karamazov. Per Cristo la questione è l'amore: «Mi ami tu, Simone? - Si, mio Signore. - Pasci i miei agnelli» (Gv 21, 15-18). Un amore libero, cioè quell'amore che ci riconsegna nelle braccia del Padre e lì trova il suo vero senso, la linfa vitale, la sua pienezza che illumina il tutto dell'umano destino. Una libertà totalmente divinizzata che fa l'uomo uomo, che giunge, come nella leggenda, a mettere a repentaglio lo stesso Dio e la sua esistenza. Questo è il rischio accettato dal Cristo. Eccolo di nuovo, figlio di Dio, subire i colpi incalzanti della condanna, dell'accusa, dell'incomprensione; subire in silenzio come all'inizio del nuovo tempo. Il silenzio è la definizione della libertà dell'uomo, è la parola, è l'uomo vivente la gloria di Dio: Dio impegnandosi con l'uomo rischia la sua stessa morte. (Horkeimer direbbe che anche l'uomo così morrebbe con Dio). Cristo tace mentre l'Inquisitore annuncia la sua teoria: l'ateismo.

L'ascesa dell'uomo che non crede non può concepire la libertà altrui perché l'altro ai sui occhi non ha alcuna dignità. Ecco la terribile domanda di Ivan Karamazov: «Esiste una sola ragione su cui si possa fondare l'amore per l'umanità?». Se la risposta è no, cioè se Dio non esiste, «tutto è permesso», anche il nulla, il non senso, e con ciò tutte le azioni più abominevoli che l'uomo può commettere: negare la libertà altrui, quella di riconoscere la sorgente del proprio destino e ad esso aderire. L'uomo diviene un semplice "ammalato" che deve essere gestito ed organizzato da un piccolo numero di suoi simili, e l'umanità, sull'immagine della Repubblica ideata da Platone o da Nieztche, sarebbe divisa in eletti, ovvero uomini liberi capaci di sopportare le sofferenze dell'umanità perché destinati a conoscere e a dominare, e in dominati, ovvero coloro che vivrebbero nel benessere delegando ad altri le proprie responsabilità.

Il Cristo rende liberi, l'anticristo schiavizza. La libertà chiede compimento perché in essa tutto partecipa, nell'adesione della scelta, e tutto si fa Icona, immagine sacra, presenza divina, santità, cammino verso il compimento di sé. Lo schiavo tutto può fare, ma il sentimento più buono che può ritrovare nella costrizione è la sopportazione, l'alienazione di una vita mancata. Per questo al Cristo non spetta che la condanna, egli infatti, nel riconoscere all'uomo l'immagine e la somiglianza del Padre suo, di nuovo produce disordine nel regno costruito dall'inquisitore, disordine tra il gregge o, meglio, nel formicaio. La fine della leggenda è qualcosa di sconvolgente, di meraviglioso e parte dalla rivelazione: «... L'inquisitore dopo aver taciuto aspetta la risposta dal prigioniero. Il suo silenzio gli pesa ... Egli a un tratto gli si avvicina e lo bacia piano sulle esangui labbra. Ecco la sua risposta. Il vecchio sussulta ... va verso la porta, la spalanca e dice: - Vattene e non venire più ... mai più ... mai più. -  Il prigioniero se ne va per le vie oscure della città... - E il vecchio? - chiese Alioscia. - Il bacio gli arde nel cuore ma il vecchio persiste nella sua idea.».

Il silenzio di Dio diventa il forte urlo della croce, l'urlo dell'uomo: «Nelle tue mani, Padre, Affido il mio spirito». La Leggenda del Grande Inquisitore è la storia della fede umana che, riconoscendo nell'amore libero Dio, crea l'immagine dell'uomo e il compimento di esso nella Verità, Bontà e Bellezza, oppure lo distrugge soffocandolo nella nostalgia di Dio che resta lontano e assente, nell'illusione di soppiantarlo con la propria misera impotenza. In un mondo dove l'uomo non avesse più alcuna dignità e libertà, lavoro, arte, religione, giustizia, uguaglianza e spiritualità equivarrebbero al nulla. Ed eccoci di nuovo comparire davanti Sonja, la redenta redentrice con il suo rinnovato fiat, e Ivan, il distrutto, e tutti gli altri personaggi del mondo di Dostoevskij, e tutti costoro (come scrive Romano Guardini) «chi sono se non la grande famiglia umana? In ognuna di quelle figure è l'uomo con la sua grandezza e la sua miseria, i suoi lati luminosi e quelli oscuri... Ciò che succede a costoro, succede in verità a tutti». 

 

 - VIDEO: L'ALBA DELL'OTTAVO GIORNO

 

- DOSTOEVSKIJ/1    La domanda più importante della storia

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- DOSTOEVSKIJ/3    Sonja, la domanda sul dolore si fa fede

- DOSTOEVSKIJ/4   La Bellezza, sete dell'uomo e del suo essere

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- DOSTOEVSKIJ/6 Uno scrittore profeta dei nostri tempi