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Premierato all'italiana: una riforma con tante criticità

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Malgrado il trionfalismo che circonda il disegno di legge costituzionale in discussione al Senato, l'elezione diretta del "Sindaco d'Italia" rischia di provocare più danni che benefici.

Politica 09_12_2023

Il termine «premierato», secondo la insuperata lezione del politologo Giovanni Sartori (1924-2017), indica un «sistema parlamentare nel quale il potere esecutivo sovrasta il potere legislativo e nel quale il Primo Ministro comanda i suoi Ministri. L’idea è di un Governo sopra l’Assemblea che ribalta il Governo dell’Assemblea» (cfr. G. Sartori, Premierato forte e premierato elettivo, in Riv. Sci. pol., n. 2/2003, p. 285). Tutto questo, in riferimento al disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa in discussione al Senato della Repubblica (A.S. n. 935), non si ravvisa.

La proposta di modifica, fortemente voluta dal Governo Meloni e definita con toni eccessivamente trionfalistici «la madre di tutte le riforme», non ha neppure lontanamente le caratteristiche del «premierato» sopra descritto, in quanto la posizione del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore rispetto ai Ministri continua ad essere quello di un «Primus inter pares», per cui il suo potere di direzione della politica generale del Governo della Repubblica (art. 95, comma 1, Cost.) va inteso come potere di dirigere la politica predeterminata dal Consiglio dei Ministri (la componente collegiale). Né si rinviene una sua posizione di preminenza rispetto al Parlamento, il quale, ai sensi dell’art. 94 del Testo costituzionale, è chiamato ad accordare la fiducia all’Esecutivo senza la quale lo stesso non può entrare nel pieno delle proprie funzioni.

Quello che la proposta di revisione costituzionale vorrebbe introdurre è l’elezione a suffragio universale e diretto, per un periodo di cinque anni, del Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale continua ad avere un potere di proposta dei titolari dei vari Dicasteri (ma la nomina spetta sempre al Presidente della Repubblica) senza, però, la possibilità di revocarli.

Ci troviamo, dunque, di fronte a quello che Sartori qualifica come «premierato elettivo» con la differenza che mentre il «premierato» nel senso pieno del termine indica un esito ben preciso, ossia la governabilità (in Gran Bretagna funziona perché i partiti sono soltanto due), il secondo una strumentazione, ossia lo strumento dell’elezione diretta. Peraltro, in nessun modello di «premierato forte», come si può ravvisare nel Regno Unito o nella Repubblica federale tedesca, il Capo del Governo è eletto direttamente dal corpo elettorale poiché, se così fosse, non sarebbe cambiabile e vi sarebbe il rinvio alle urne: quando, nel luglio 2016, a seguito del referendum consultivo sulla Brexit, ci fu il passaggio da David Cameron a Theresa May, non vi fu alcun voto popolare.

Si pone, pertanto, la domanda: se questi sono i veri modelli di «premierato» perché in Italia si ragiona ancora sull’elezione diretta del «Sindaco d’Italia»? Da un lato, la inevitabile politicizzazione dei «riformisti», dall’altro, il populismo demagogico che contamina anche (e soprattutto) le riforme costituzionali.

​Nel merito la «madre di tutte le riforme» pone non poche criticità. In primo luogo, sarà necessaria la legge elettorale per l’elezione del Presidente del Consiglio dei Ministri. Tuttavia, questa non potrebbe impedire il verificarsi di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento (forse si poteva ragionare sul ruolo della seconda Camera anche alla luce dell’iter per l’attuazione del regionalismo differenziato) con problemi non di poco conto per la formazione del Governo. Infatti, da una parte c’è un Presidente del Consiglio dotato di legittimazione democratica diretta, dall’altra un Presidente della Repubblica (organo costituzionale non toccato dalla proposta di revisione) titolare di un potere di scelta dell’incaricato privo della consueta discrezionalità, necessaria al fine di favorire la nascita del nuovo Governo qualora la maggioranza parlamentare non sia ben delineata (pensiamo alle elezioni politiche del marzo 2018).

​In secondo luogo, la riforma costituzionale non assicura la stabilità dei Governi e la loro azione politica. L’Italia, diversamente dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna, presenta un quadro partitico complesso e molto frammentato e questo ha prodotto Esecutivi di coalizione. Davvero, allora, lo «spauracchio» del voto anticipato, nei modi e tempi stabiliti dal d.d.l. n. 935, è garanzia di solidità? Oppure, viceversa, la via delle urne corre il rischio di aumentare la competizione tra leader al fine di rafforzare la rispettiva forza politica?

​In terzo luogo, al di là che la proposta di riforma appare non del tutto condivisa dalle forze della attuale maggioranza parlamentare, nel caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto nel corso del quinquennio di legislatura, il disegno di legge costituzionale attribuisce al Capo dello Stato il potere di scegliere, per la formazione del Governo, o il Presidente dimissionario o un deputato o senatore candidato in collegamento al Presidente eletto. Ora, in ipotesi di mancato ottenimento della fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere anticipatamente le Camere. Dal testo dell’art. 4 del disegno di legge costituzionale emerge come il secondo Presidente del Consiglio risulta essere paradossalmente più forte del primo, perché solo la sua caduta porterebbe al voto anticipato e non invece quella dell’eletto direttamente.

Da ultimo, la proposta di riforma, all’art. 3, nell’affidare ad una nuova legge elettorale la disciplina dell’elezione di Camera e Senato secondo i principi di rappresentatività e governabilità, introduce un premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, pari al 55% dei seggi in ciascuno dei due rami del Parlamento. È incredibile che non si inserisca nella novella costituzionale, come peraltro auspicato dalla stessa Corte costituzionale, una soglia minima di voti per far scattare il premio. Il rischio di un pericoloso squilibrio è evidente.
​In conclusione, ci troviamo innanzi ad una riforma pasticciata, carente di una visione d’insieme che produrrà più danni che benefici.

 

Daniele Trabucco è Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato
presso la SSML/Istituto ad Ordinamento universitario «san Domenico» di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.



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