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Occhiuto sfida le toghe e si dimette per ricandidarsi

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Raggiunto da un avviso di garanzia, il governatore della Calabria anticipa l'appuntamento alle urne lanciando un messaggio chiaro: saranno i calabresi a scegliere e non altri. Un cambio di passo nel rapporto tra politica e magistratura.

Politica 02_08_2025
Ufficio Stampa Forza Italia/LaPresse

La notizia ha scosso i palazzi della politica. L’annuncio clamoroso e inaspettato da parte del governatore calabrese Roberto Occhiuto, che si dimette con oltre un anno di anticipo rispetto alla fine del mandato (prevista per ottobre 2026) e si ricandida alle elezioni regionali previste tra fine settembre e inizio ottobre, segna un cambio di passo della politica rispetto alle inchieste della magistratura. La decisione di Occhiuto è infatti legata all’avviso di garanzia ricevuto a giugno dalla Procura di Catanzaro nell’ambito di un’inchiesta per corruzione che lo vede indagato insieme a quattro persone, tra cui due manager legati al suo entourage, accusati di aver beneficiato di nomine grazie al rapporto di vicinanza col presidente.

Occhiuto ha voluto chiarire che non ce l’ha con la magistratura – anzi auspica che i pm facciano serenamente il loro lavoro – ma con i “politici di secondo piano” che strumentalizzano l’inchiesta come clava per indebolirlo politicamente. Il suo messaggio è netto: “Tra qualche settimana saranno i calabresi a decidere il futuro della Calabria, non altri”. Il governatore con questa scelta ha anche voluto denunciare la paralisi che si è creata all’interno della sua amministrazione: quasi nessuno firma più un atto, nessuno si assume più responsabilità e la macchina regionale è bloccata. C’è, infatti, il terrore generalizzato di finire nelle grinfie delle toghe e nel tritacarne mediatico-giudiziario.

Occhiuto spiega che in Calabria si ripete uno schema noto negli ultimi trent’anni: nella parte finale di ogni legislatura è quasi sempre spuntato un presidente coinvolto in una inchiesta, magari archiviato in seguito, ma politicamente decapitato, con la legislatura fermata per interi mesi attorno al caso giudiziario. Questo cortocircuito tra inchieste ed elezioni ha paralizzato la Regione e Occhiuto sostiene che la Calabria non se lo può più permettere, perché ha avviato un percorso di sviluppo e riscatto e non può fermarsi. Sul piano politico, l’annuncio arriva alla vigilia degli Stati generali del Sud convocati a Reggio Calabria dall’1 al 3 agosto da Forza Italia, alla presenza del vertice nazionale del partito, e arricchisce di contenuti la convention azzurra sul Mezzogiorno.

Il contrasto con il caso del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, emerge evidente: nonostante sia coinvolto anch’egli in un’inchiesta, l’inquilino di Palazzo Marino ha deciso di non dimettersi e di proseguire il suo mandato, confidando nella pulizia delle proprie mani e nella complessiva tenuta amministrativa. Per Sala il criterio è stato “resistere e blindarsi alla poltrona”, mentre Occhiuto sceglie il percorso opposto: lasciare e poi riproporsi agli elettori, perché sia il popolo a decidere, non i magistrati. Questa dissonanza apre una riflessione cruciale: quale atteggiamento è più coerente? Quello di chi rimane al suo posto o quello di chi si dimette per riproporsi agli elettori?

Da un lato c’è il principio secondo cui “non ci si deve dimettere per un avviso di garanzia” – un presupposto di innocenza cui anche Occhiuto aderisce fermamente. Dall’altro, c’è l’idea che un amministratore sotto inchiesta può danneggiare il funzionamento politico e istituzionale, sino a paralizzare progetti e decisioni pubbliche, come ha denunciato Occhiuto riguardo alla sua giunta. In una situazione in cui gli atti ufficiali restano sospesi per timore di provvedimenti giudiziari, rinviare le decisioni, interrompere i cantieri, insomma, risulta più pericoloso del fatto stesso dell’avviso di garanzia.

Ma qual è l'approccio “giusto” dal punto di vista etico e politico? Blindarsi alla poltrona significa preservare la leadership, continuare l’esperienza di governo e rifiutare condanne preventive. Lasciare la poltrona e ricandidarsi vuol dire accettare la sfida delle urne per non restare intrappolati in una guerra legale che paralizza l’azione pubblica.

La riflessione obbligata riguarda anche il rapporto tra magistratura e politica: in un sistema democratico, i magistrati devono indagare con serenità e rigore, senza interferenze. Ma le inchieste, specialmente nelle fasi finali delle legislature, creano un effetto di cortocircuito che rischia di “uccidere politicamente” amministratori anche poi assolti, come ben sa la Calabria. Questo cortocircuito rende le elezioni autunnali non solo un appuntamento politico, ma anche un banco di prova sul modello che il Paese desidera: isolamento dell’indagato o confronto con l’elettorato?

Occhiuto, nella sua versione di garantista militante, non nega l’importanza della giustizia, ma pretende che non sia essa a determinare la fine di una legislatura. Vuole che siano i cittadini, democraticamente chiamati alle urne, a decidere se ritengono ancora utile il suo operato. È una forma battagliera e coraggiosa, che punta tutto sulla carta del voto popolare. Sala ha scelto la strada opposta: proseguire il mandato fiducioso nella propria condotta, ritenendo che i fatti parleranno da soli e che l’azione amministrativa debba proseguire senza interruzioni.

Con le elezioni regionali d’autunno sempre più segnate da avvisi di garanzia, indagini in corso, tentativi di sospensione di candidature e contraccolpi mediatici e politici, la contesa calabrese diventa paradigmatica per l’intero sistema. Il modello di Occhiuto esalta la legittimazione democratica, poiché il governatore calabrese chiede agli elettori di confermarlo anche dentro il vento dell’inchiesta; il modello di Sala, al contrario, rifugge dal populismo giudiziario, ma il primo cittadino di Milano, così facendo, rischia di restare intrappolato in un isolamento politico senza via d’uscita se l’opinione pubblica gli volterà del tutto le spalle.

La Calabria vivrà un voto che testimonia quanto il rapporto fra inchieste e politica non sia mai stato così intenso. Il dilemma è tra dimissioni e ricandidature come antidoto allo stallo, oppure tenace resistenza allo scandalo come segno di fermezza. Entrambi i casi impongono una riflessione sul codice di condotta politico-amministrativo, sul ruolo del voto popolare e sulla separazione fra giustizia e politica. Solo il tempo elettorale ci dirà quale approccio ha raccolto più consenso, e quale strategia ha permesso alla Calabria – e ad altre regioni chiamate al voto – di evitare le continue e perniciose commistioni fra magistratura e governo.