Non sta andando "tutto bene": a Gaza rischia di saltare la tregua
Non sta andando "tutto bene". Con rapdità e violenza, Hamas sta riprendendo il controllo della Striscia di Gaza, uccidendo tutti i suoi rivali. I paesi arabi denunciano crimini, Trump minaccia un secondo intervento (ma non americano).

Non sta andando “tutto bene” a Gaza. Per niente. L’accordo di Sharm el Sheikh rischia di saltare. Non è tanto la mancata restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani uccisi a far deragliare il nuovo processo di pace: Hamas chiede tempo, ritiene che sia difficile rintracciare le spoglie di tutti gli ostaggi che mancano all’appello, quelli che erano sotto il suo diretto controllo, o quelli che erano nelle mani di altri jihadisti alleati. Netanyahu, così come Donald Trump, hanno dimostrato di comprendere la difficoltà dell’operazione e non minacciano di riprendere le ostilità per questo motivo. A poter far saltare l’accordo, semmai, è la rapidità e la violenza con cui i terroristi di Hamas stanno riprendendo il controllo della Striscia di Gaza. Stanno infatti liquidano i clan che si sono opposti al suo potere, soprattutto in Gaza City.
Donald Trump, subito dopo la firma a Sharm el Sheikh, interrogato da un giornalista su quale fosse il suo messaggio ad Hamas in seguito alle notizie secondo cui il gruppo svolgerà un ruolo di forza di polizia palestinese, ha fatto sapere: «Abbiamo dato loro l'approvazione per un periodo di tempo (…) Vogliono porre fine ai problemi e lo hanno detto apertamente, e abbiamo dato loro l'approvazione per un periodo di tempo. Penso che andrà tutto bene» (corsivo nostro, ndr). Ma subito dopo queste dichiarazioni sono circolate le immagini delle prime esecuzioni in pubblico. Fucilazioni di persone arrestate in modo sommario, in piazza, in pubblico, sparatorie nelle strade, torture e mutilazioni inflitte a gazawi accusati di aver collaborato con Israele.
Il principale bersaglio della campagna di Hamas è il clan dei Doghmosh, rivale del partito islamista sin dal 2007, quando si era schierato al fianco dell’Autorità Palestinese. Hamas, tornando in possesso di Gaza City ha intimato a membri di quel clan, asserragliatisi nell’ospedale giordano, di consegnare dieci persone considerate collaborazioniste. Il clan ha rifiutato la consegna, sono volate minacce, poi spari e il primo morto lo ha subito Hamas. Che però, successivamente si è vendicato con gli interessi. «Sentivo spari tutt’intorno, scontri violenti - ha detto Sobheia Doghmosh, che al Wall Street Journal ha dichiarato di aver contato almeno una ventina di morti - L’area è ora completamente circondata da uomini armati e mascherati».
Il clan dei Doghmosh non è l’unico nemico del partito islamista. All’inizio di ottobre, prima ancora che venisse approvato il cessate il fuoco, Hamas ha attaccato il clan di Al Majaydeh. Mohammad Majaydeh, 50 anni, portavoce del clan, ha dichiarato che almeno sei membri della sua famiglia sono stati uccisi negli scontri.
I grandi clan costituiscono circa il 30% della popolazione di Gaza. Durante la guerra hanno approfittato per assumere il controllo dei loro quartieri, ma una volta finito il conflitto sono esposti alla rappresaglia del partito islamista, che li accusa anche di corruzione e di traffico illecito degli aiuti umanitari. Accusa prontamente ricambiata, considerando che pure Hamas stesso (anche secondo l’Onu) sequestrava i carichi di aiuti che entravano nella Striscia. Più strutturate delle milizie dei clan sono i gruppi paramilitari, appoggiati da Israele durante la guerra e tuttora in controllo di aree, nell’estremo sud e nord della Striscia, da cui l’Idf non si è ancora ritirata. Fra queste la più celebre è la milizia di al Shabab, di Rafah (al confine con l’Egitto). A Khan Younis invece opera la milizia di Hossam al-Astal che, in un appello in arabo, ha esortato il mondo a proteggere gli abitanti di Gaza dal gruppo terroristico, nel mezzo della sua ondata di omicidi.
Sono circa 300 le vittime stimate della repressione interna, in meno di una settimana. Sono video e notizie che non hanno lasciato indifferente neppure l’altra Palestina, quell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) che non ha più il controllo di Gaza dal 2007 a seguito del golpe di Hamas. Nella dichiarazione di Abu Mazen, il presidente dell’Anp li definisce “crimini efferati” che non hanno giustificazione e riflettono l'insistenza di Hamas nel governare attraverso la forza e il terrore. «Il ripristino della legge e delle legittime istituzioni del popolo palestinese a Gaza è l'unico modo per porre fine allo stato di caos e ricostruire la fiducia nazionale», dice il presidente palestinese.
Mercoledì è intervenuto anche il comandante delle forze statunitensi in Medio Oriente che ha invitato Hamas a interrompere immediatamente gli attacchi contro “innocenti civili palestinesi” e a iniziare a “disarmare senza indugio”. Trump, dopo aver concordato con Hamas la sua funzione di polizia, pare aver fatto marcia indietro: «Se Hamas continua a uccidere gente a Gaza, cosa che non era prevista dall'accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderli». Ma il “noi” non si riferisce a eventuali truppe americane: «Qualcuno entrerà» a Gaza, ha tenuto a precisare: «Ci sono persone molto vicine che entreranno, faranno il loro lavoro molto facilmente, ma sotto la nostra egida».
Trump ha urgenza di risolvere il nuovo problema anche sotto pressione: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein potrebbero abbandonare il processo di pace. Fonti diplomatiche arabe e statunitensi hanno rivelato al quotidiano israeliano Israel Hayom che se dovesse mancare una risposta decisa degli Stati Uniti e un cambiamento di approccio da parte dei mediatori (Egitto, Qatar e Turchia) per far rispettare i termini del piano ad Hamas, l'Arabia Saudita non parteciperà alla prosecuzione del processo.
Se non ci sono cambi di mentalità e una deradicalizzazione, come previsti negli ultimi punti del piano di pace, è difficile immaginare una pace duratura. Lo sottolinea anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme: «Abbiamo bisogno di nuovi volti, nuove figure che aiutino a ricostruire una narrativa diversa, fatta sul rispetto l'uno dell'altro. Ci vorrà molto tempo perché le ferite sono profonde, ma non dobbiamo desistere. Dunque c'è comunque speranza di poter costruire una pace duratura, anche se in questo momento siamo soltanto ai primi passi».