Non sarà trumpiano, ma l'elezione di Prevost è una sconfitta del "partito cinese"
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Leone XIV è stato subito dipinto dalla narrazione mainstream in chiave anti Trump come "il meno americano tra i cardinali americani". Ma è una versione dei fatti poco realistica perché la sua elezione va messa in contrapposizione con la sconfitta del "partito cinese" nella Chiesa, che ha guardato a un rapporto preferenziale con il regime di Pechino.
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È evidente, al di là dei toni celebrativi, che l'elezione di Francis Robert Prevost al soglio pontificio ha suscitato non solo sorpresa, ma un certo sconcerto e disappunto nel mainstream mediatico/politico/intellettuale occidentale, perennemente inclinato verso la "narrazione unica" progressista iper-secolarizzata. Tale narrazione prevedeva – anche a partire dal dato oggettivo che la grande maggioranza di esso era costituito da cardinali nominati proprio da papa Bergoglio – che il nuovo papa dovesse essere "naturalmente" non tanto il successore di Pietro, ma il successore di Francesco, e proseguire il "rinnovamento" rimanendo fedele alla sua ispirazione. E in questo senso i nomi innanzitutto di Parolin, in subordine di Zuppi e Tagle, apparivano quelli più probabili.
L'elezione di Prevost, i suoi primi gesti simbolici e i primi pronunciamenti successivi hanno inserito più di un sassolino di dubbi a inceppare questa assiomatica rappresentazione. Abbiamo visto come Leone XIV abbia posto in rilievo, fin dalla sua apparizione al balcone di piazza San Pietro, elementi di chiara discontinuità rispetto alla retorica totalmente antiformalista e "dissacrante" del suo predecessore: il ripristino di paramenti solenni, la centralità dell'invocazione alla Vergine, la prima omelia che ha insistito sulla centralità di Cristo e sulla sua natura divina. Ma è innegabile che l'elemento più "disturbante" per i tanti osservatori "ultrabergogliani" sia stato innanzitutto il fatto in sé che il nuovo pontefice provenga dagli Stati Uniti. E il fastidio che questo ha suscitato in loro è stato innanzitutto di tipo specificatamente politico. Essi si attendevano un papa asiatico o appartenente all'Europa ampiamente laicizzata, e invece è arrivato per la prima volta un papa nordamericano. Attivando subito nel mainstream progressista l'allarme di un possibile collegamento tra questa novità e il fatto che oggi negli Stati Uniti al governo vi sia quello che per esso è pressappoco il diavolo incarnato, ossia Donald Trump. La nazionalità del nuovo pontefice si andava a connettere immediatamente, in modo subliminale, nelle menti di quegli osservatori, al famigerato meme che ritraeva il presidente statunitense con in testa la mitra papale, suscitando sensazioni disagevoli e angosciose.
Naturalmente, di fronte a questo tarlo, gli araldi della "narrazione unica" hanno immediatamente reagito costruendo in tutta fretta un muro di sbarramento. Prevost è stato subito dipinto, con una fretta sospetta che cela una evidente excusatio non petita, come "il meno americano tra i cardinali americani", come un antitrumpiano, come un paladino dei migranti latinos senza se e senza ma, e, ça va sans dire, come un bergogliano tutto d'un pezzo. Anzi, molti tra i suddetti araldi hanno spiegato la sua elezione a sorpresa sostenendo che il conclave abbia voluto fare esplicitamente un gesto ostile nei confronti di Trump, o quanto meno mandargli un avvertimento minaccioso: «Eleggiamo un papa statunitense ma molto diverso da te, per minare il tuo consenso, dare fiato alle opposizioni interne al tuo paese, e farti capire che d'ora in poi avrai sempre un controcanto autorevole, una spina nel fianco proprio in casa tua».
Ma quanto è realistica questa versione dei fatti? Ben poco, se si guarda ai puri dati numerici e al senso politico di quanto è accaduto. La prevalenza del nome di Prevost in conclave è stata certamente il frutto della confluenza, a un certo punto, di gran parte del "blocco" di voti detenuti dal segretario di Stato Piero Parolin, che era accreditato come il candidato con maggiori chance di elezione, e il più autorevole continuatore, sia pur in forma più cauta, della linea del pontificato bergogliano. Ma si trattava di un "blocco" composito, italo-euro-asiatico, non automaticamente classificabile come bergogliano e progressista. E, soprattutto, quella confluenza è stata significativamente favorita dal fatto che i cardinali statunitensi, espressione di una Chiesa in forte crescita e che finora ha contato meno di quanto rappresenta, hanno a loro volta fatto "blocco", rimanendo uniti, insieme a quelli sudamericani, e quindi configurando un loro rappresentante come l'alternativa più immediata nel caso, che si è appunto verificato, che i consensi a Parolin non riuscissero a crescere fino a superare la soglia dei due terzi.
Quindi sebbene Prevost sia classificato, per quanto valgano queste schematizzazioni, come un "progressista", sia pure moderato, egli non è stato eletto in quanto progressista o bergogliano, ma proprio in quanto statunitense e americano. E sembra indubitabile che egli sia stato sostenuto anche dalla robusta maggioranza conservatrice/tradizionalista che oggi esiste nella Chiesa degli Stati Uniti: incluse figure carismatiche come il cardinale Timothy Dolan, e addirittura l'antagonista principale di papa Bergoglio, Raymond Leo Burke.
Insomma, Leone XIV non sarà un trumpiano (per quanto, pare, sia registrato come elettore repubblicano), ma certamente egli è l'espressione del protagonismo oggi assunto complessivamente dalla componente statunitense nel cattolicesimo, e della sua aperta rivendicazione di leadership. E, in subordine, dell'intero continente americano. D'altra parte, è particolarmente significativo il fatto che i cattolici oggi siano la più numerosa confessione religiosa negli Stati Uniti, che i loro voti siano stati decisivi per la seconda elezione di Trump, e che membri autorevoli dell'amministrazione guidata da quest'ultimo, come il vicepresidente Vance e il segretario di Stato Rubio, siano cattolici.
E questo ci porta a un altro aspetto importante di questa elezione, non a caso completamente ignorato da quella "narrazione unica" progressista, e forse anche dalle reazioni degli ambienti più conservatori del cattolicesimo, troppo intenti forse a cercare di capire se dal punto di vista "ideologico", dottrinale e pastorale vi sia o meno discontinuità tra Leone e Francesco. Quasi nessuno ha notato, infatti, un aspetto che invece appare cruciale: l'elezione di Prevost, e la mancata elezione di Parolin, di Luiz Antonio Tagle, o di altro candidato a loro assimilabile, rappresenta anche una chiarissima sconfitta del "partito cinese" nella Chiesa, cioè di tutta quella parte dell'episcopato e del collegio cardinalizio che ha guardato a un rapporto preferenziale con il regime di Pechino. Che, in Italia, è tra l'altro rappresentato dalla Comunità di Sant'Egidio, assurta a enorme influenza durante il papato di Francesco. Un rapporto del quale, ovviamente, l'espressione decisiva è stata il famoso, o famigerato, accordo segreto del 2018, che tante discussioni ha suscitato. Probabilmente è stato proprio il fatto di essere il massimo responsabile di quella linea a costituire l'handicap decisivo, la macchia che ha impedito a Parolin di ascendere al soglio pontificio. E che, a maggior ragione, ha impedito l'elezione di candidati come Tagle e Matteo Zuppi.
L'elezione di Leone XIV è stata, in tutta evidenza, anche uno stop molto deciso alla linea di appeasement con il regime cinese, e un riposizionamento netto della Chiesa cattolica nel campo occidentale. Non è una "trumpizzazione" del cattolicesimo, ma è sicuramente un altro tassello del confronto globale sempre più serrato tra Washington e Pechino. Un tassello che segna decisamente un punto a favore di Washington.