Maria Corina Machado: una fuga da Nobel, da Caracas a Oslo
Maria Corina Machado, leader dell’opposizione in Venezuela, vincitrice del premio Nobel per la Pace, è andata personalmente a Oslo. E lo ha fatto con una fuga rocambolesca, coordinata con gli Usa, degna delle migliori storie da guerra fredda.
Maria Corina Machado, leader dell’opposizione in Venezuela, vincitrice del premio Nobel per la Pace, era data certamente per assente alla cerimonia di consegna del prestigioso riconoscimento, a Oslo. Invece c’era. Non era lei a ritirare materialmente il premio e a pronunciare il discorso di accettazione. A farne le veci era stata la figlia Ana Corina Sosa. Ma la sera stessa, Maria Corina Machado si è palesata nel Grand Hotel di Oslo, nel luogo della cerimonia, accolta in trionfo da suoi sostenitori venezuelani della diaspora. Come sia riuscita ad arrivarci, è una storia da guerra fredda, una riedizione, nel nostro secolo, delle fughe rocambolesche da Berlino Est o dall’Unione Sovietica.
Prima di tutto, sapevano tutti che la leader dell’opposizione venezuelana fosse in una “località nascosta”, ma non nascosta sotto il naso del regime che la sta ricercando. Invece si trovava proprio nella capitale Caracas, protetta dal suo gruppo. In altre occasioni aveva lasciato il paese, per poi tornarvi. Ad esempio per andare in Colombia, per incontrare l’ex presidente Ivan Duque. Ma in questo caso, si tratta del suo primo viaggio trans-continentale, molto più difficile a livello logistico e rischioso sul piano della sicurezza personale. Avvalendosi di una rete clandestina specializzata a far espatriare dissidenti dal paese, è riuscita ad uscire da Caracas e a recarsi in un piccolo porto di pescatori vicino a Maracaibo e da lì a imbarcarsi per Curaçao, in territorio olandese, dove ha avuto un passaggio aereo per Oslo.
Travestita fino a risultare irriconoscibile, nel suo percorso di terra, Maria Corina Machado è riuscita a passare, indenne, ben dieci posti di blocco. Dopo qualche ora di riposo, nella notte fra lunedì 8 e martedì 9, si è imbarcata su un piccolo peschereccio. E qui è iniziata la parte più pericolosa del viaggio. Erano tante le cose che potevano andare ancora male. C’era il mare grosso. Il peschereccio era un’imbarcazione piccola e precaria. Poteva essere intercettata in ogni momento dalla Guardia Costiera venezuelana. E poteva anche essere colpita dagli americani, che in quella zona distruggono tutti i natanti sospettati di trasportare droga. Su quest’ultimo punto, spicca abbastanza la cooperazione degli Usa all’operazione di esfiltrazione. La rotta e il momento della partenza erano infatti stati concordati in anticipo fra il gruppo venezuelano di esfiltrazione e il comando statunitense. Il Comando Sud americano, non solo non ha bombardato la barca della Machado per errore, ma le ha anche fornito scorta aerea, in caso fosse stata intercettata dai venezuelani. Per poco meno di un’ora, nella notte della traversata, due F-18 della marina statunitense hanno sorvolato l’area della navigazione, a piccoli cerchi, fino ad arrivare a ridosso dello spazio aereo venezuelano. Nulla era affidato al caso, dunque: una pianificazione così richiede tempo e un ottimo coordinamento sul terreno.
Arrivata a Curaçao, la leader dell’opposizione venezuelana «È stata accolta da un appaltatore privato specializzato in estrazioni, fornito dall'amministrazione Trump» (secondo la fonte del Wall Street Journal), che le ha dato il passaggio finale per la Norvegia, con un aereo privato, facendo tappa a Bangor, nel Maine, prima della trasvolata atlantica. Il mercoledì 10, alla sera, la Machado era a Oslo, pronta per essere accolta da vincitrice. Un’umiliazione incredibile per il regime di Maduro. Ciò spiega perché l’amministrazione Trump, ai ferri cortissimi con la dittatura venezuelana, abbia speso così tanto impegno per permettere la riuscita di una fuga così rocambolesca.
Quel che invece resta insicuro è il futuro della Machado stessa, ora che si trova sul suolo europeo. Nei prossimi giorni, dopo un meritato e annunciato riposo, girerà in Europa, a raccogliere il sostegno della grande diaspora venezuelana. Ma poi? Il futuro è incerto, perché se dovesse abbandonare il Venezuela e trasformarsi in una leader dell’opposizione in esilio, farebbe la fine degli altri suoi predecessori che, una volta perso il contatto con il paese lo hanno perso anche con il loro elettorato. Se dovesse tornare, invece, stavolta rischierebbe la vita molto più di quanto non l’abbia rischiata sinora. Il regime di Maduro non sarà disposto a farsi beffare di nuovo e vorrà catturarla (o ucciderla?) appena la trovasse entro i confini.
La storia della fuga, comunque, è istruttiva per capire cosa sia diventato il Venezuela, oggi: un paese-carcere, come tutti i regimi comunisti che lo hanno preceduto. Una “democrazia” ormai solo di nome, socialista per definizione, comunista nei metodi, che impedisce a una leader dell’opposizione democraticamente eletta di esprimersi liberamente e di andare all’estero per ritirare un meritato premio Nobel per la Pace. Un paese dove si devono attraversare ben dieci posti di blocco per muoversi da una città all’altra e dove un’oppositrice rischia di essere arrestata ad ogni controllo. Questo è il Venezuela oggi, un paese da cui oltre sette milioni di cittadini sono già fuggiti. Come Solzhenitsyn, come Sacharov, anche la dissidente Machado deve ritirare il Nobel da esule. In più, rispetto ai suoi predecessori, in mancanza di un qualsivoglia accordo fra governi, deve farlo fuggendo, in clandestinità, con un’operazione complessa coordinata con gli Usa, per ottenere quello che è un suo diritto, per ricevere il giusto tributo di un popolo che l’attende.


