Mamdani, ultimo campione della borghesia radical chic
Zohran Mamdani, emblema dei "radical chic", termine coniato proprio a New York. Esponente di una sinistra che esprime il senso di colpa di una borghesia ricca e simpatizzzante per ogni forma di estremismo.
Se Tom Wolfe - il geniale ed eccentrico scrittore statunitense inventore a suo tempo del termine "radical chic" – fosse ancora tra noi osserverebbe compiaciuto (anche se con angoscia) come la categoria umana, socio-culturale e politica descritta nel suo profetico libretto omonimo del 1970 trovi ancora oggi nuove, più elaborate incarnazioni.
Il radical chic additato da Wolfe era, come è noto, il facoltoso e colto borghese occidentale che, per senso di colpa di classe ideologicamente indotto, simpatizzava per ogni forma di estremismo, divenendo cieco davanti alla sua pericolosità per il vivere civile e adottandone una interpretazione superficiale ed estetizzante.
Ora, l'elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York, "capitale" dell'intero Occidente liberaldemocratico a economia di mercato, dimostra in modo eclatante la persistente attualità di quella intuizione wolfiana e la sua utilità per comprendere la parabola del progressismo da allora ad oggi.
La prima riflessione che si può ricavare dalla vittoria di Mamdani – e ancor più dalle reazioni euforiche e agiografiche suscitate da essa nel circuito politico-mediatico-intellettuale progressista – è che oggi la "radicalchicchizzazione" delle sinistre è pressoché completa. Mamdani, nella più classica iconografia "wolfiana", si è presentato come rappresentante degli immigrati e delle classi disagiate della città, ma è il rampollo di una famiglia della grande borghesia intellettuale, figlio di un professore della Columbia University e della celebre regista indiana Mira Nair. Il programma grazie al quale è stato eletto è un potente concentrato di demagogia populista e wokismo: supertassa ai ricchi, affitti calmierati, servizi pubblici gratis, aumento del salario minimo. Una piattaforma che ha ben poche possibilità di essere effettivamente realizzata perché è molto dubbio che l'amministrazione Trump e la governatrice Dem dello Stato di New York forniscano alla città le risorse necessarie. Ma che, se mai lo fosse, porterebbe inevitabilmente alla fuga di tutte le fasce sociali più attive e produttive, e dei relativi investimenti, dalla Grande Mela, con conseguenze economiche catastrofiche.
Come è possibile che una maggioranza di elettori newyorkesi abbia votato per un candidato del genere? Pur facendo la tara del fatto che rispetto al presidenziali i voti ottenuti da Mamdani sono decisamente inferiori a quelli ottenuti dai Dem, e che essi superano solo di poco la somma dei due candidati a lui contrapposti, la risposta, sempre seguendo la traccia offerta più di mezzo secolo fa da Wolf, può essere trovata nell'incrocio tra il senso di colpa antioccidentale delle élites metropolitane, in gran parte nutrite dalla rendita finanziaria o dall'appartenenza al sistema di potere del progressismo globale, e l'invidia sociale dei tanti aspiranti a farne parte, che pretendono di vivere nella città "centro del mondo" non grazie al proprio successo economico e professionale, ma grazie al fatto che qualcun altro se ne sobbarchi i costi. In entrambi i casi, si tratta di ceti che hanno perso in gran parte il contatto con la realtà del lavoro e dell'economia, e vivono in una velenosa "bolla" ideologica.
Ma questo è il frutto estremo di un piano inclinato che comincia molti decenni fa. La disgregazione dello "spirito" di libertà e merito della cultura politica americana ha potuto giungere fino a questo punto perché la polarizzazione della dialettica politica occidentale tra progressisti/globalisti e "sovranisti", legata alle trasformazioni innescate nei paesi industrializzate dai processi di globalizzazione, ha fatto "esplodere" i partiti di sinistra, convertiti ad un astratto "dirittismo", travolgendo o significativamente indebolendo in essi ogni componente moderata e ogni coalizione sociale che includa il mondo della produzione e i ceti medi.
Le sinistre attuali esprimono quindi ormai quasi ovunque leader radicali che propongono una precaria mistione ideologica di anticapitalismo, multiculturalismo, "dirittismo" gender/femminista, ambientalismo anti-sviluppo. Essi trovano la loro base elettorale essenzialmente nelle borghesie intellettuali, in fasce giovanili dell'elettorato indottrinate da scuole e università ridotte a catechismo "politicamente corretto" e nella parte meno integrata delle comunità di immigrati, spesso animata non solo da aspettative assistenzialistiche ma anche da sentimenti di aggressiva rivalsa verso le società che pure li hanno accolti. Tale esplosiva miscela trova non a caso la sua incarnazione più chiara e vincente proprio nelle grandi metropoli, che vedono la maggiore concentrazione di quelle componenti sociali, e i cui sindaci diventano i corifei di ogni varietà dell'ideologia progressista woke nelle sue forme più esasperate. Ma, per gli stessi motivi, quiei leader spaventano e alienano da sé una fetta rilevante dei ceti che tradizionalmente guardavano a sinistra, e fa sì che i partiti progressisti siano praticamente ovunque strutturalmente minoritari. Producendo frustrazione nella suddetta coalizione, ed esasperando dunque in essa ancor più le componenti estremiste.
Questa tendenza, chiaramente presente anche nelle democrazie europee, è particolarmente forte oggi negli Stati Uniti. Infatti nel Vecchio Continente la radicalizzazione e il declino delle sinistre ex socialdemocratiche conduce generalmente all'assestamento del quadro politico tra destre conservatrici/sovraniste e "centro" cristiano/popolare europeista o tecnocratico (vedi il caso, oggi pure in calo, di Macron). Viceversa negli Stati Uniti la strutturazione rigorosamente bipartitica del sistema politico fa sì oggi che il Partito democratico sia in misura crescente preda di una "colonizzazione" da parte di correnti estremiste, come quelle neo-socialiste di Bernie Sanders e di Alexandria Ocasio-Cortez, e di conseguenza finisca per emarginare candidati più moderati che sarebbero in grado di competere alle presidenziali, alimentando un settarismo perdente, come fu l'anno scorso con la designazione di Kamala Harris a sfidante di Trump. O addirittura, come nel caso newyorkese, fa sì che esso venga sconfitto da sinistra dal candidato di un raggruppamento di sinistra radicale finora assolutamente minoritario sul piano nazionale, come i Socialisti Democratici d'America (DSA). La vittoria di Mamdani, e la sua esaltazione come potenziale alfiere di una "nuova alba" della sinistra americana, rischia perciò di avere effetti disastrosi da un lato e dall'altro dell'Atlantico, producendo innumerevoli imitazioni tanto destabilizzanti quanto sterili.
Ma rispetto al quadro della trasformazione radical chic e woke della sinistra americana, l'elezione di Mamdani propone un altro elemento ancor più inquietante, che sviluppa ulteriormente e trapianta oltroceano una tendenza già in atto da tempo in Europa: la saldatura, a partire appunto dalle metropoli, tra progressimo woke e fondamentalismo/radicalismo islamista, nel segno del livore per tutti i princìpi dell'Occidente e del movimentismo "pro Pal", ai limiti, e spesso oltre i limiti, dell'aperto antisemitismo. Una tendenza che si ritrova già in molti sindaci, amministratori, governi di sinistra, e si manifesta con particolare evidenza in componenti dell'attuale esecutivo laburista britannico. Ora essa viene "sdoganata" a livelli estremamente pericolosi dalle prese di posizione del nuovo sindaco di New York.
Le nuove "icone" del progressismo radical chic, insomma, minacciano sempre più concretamente di incarnare la transizione dall'"empatia suicida" dell'"Occidente che odia se stesso" alla sua concreta demolizione in favore di modelli di civiltà del tutto incompatibili con i suoi princìpi fondanti.

